Jeremy Corbyn durante un meeting alla Newspeak House di Londra lo scorso 30 agosto (foto LaPresse)

Malinconie da Labour

Paola Peduzzi
S’apre la conferenza a Liverpool, Corbyn s’aspetta un’altra incoronazione. Tra golpe-kamikaze e aree-bimbi s’alza un grido: con questi dirigenti non vinceremo mai

Quando Jeremy Corbyn fu eletto un anno fa alla guida del Labour britannico, non si faceva che parlare di Cenerentola. La favola di questo settantenne con la coppola e il borsello, la barba bianca e la religione vegetariana, che arriva al ballo laburista quando nessuno se l’aspetta e ruba l’attenzione di tutti era al tempo stesso straordinaria e spaventosa, ma se le piazze si animavano di un attivismo che mai si era visto prima c’era la consapevolezza che la mezzanotte sarebbe arrivata, la carrozza sarebbe tornata zucca e chissà se poi il principe sarebbe davvero riuscito a trovare e sposare questa scontrosa Cenerentola. Ora che si riapre la conferenza del partito, quest’anno a Liverpool a partire da domenica, si scorgono zucche dappertutto sì, ma Corbyn si avvia a tornare al ballo laburista con addosso ancora il vestito della festa: è in corso una sfida per la sua leadership, che si concluderà sabato a mezzogiorno, ma sembra che tutti diano per scontato che la gara è già vinta, Corbyn è qui per restare, soprattutto lo è il corbynismo.

 

I commentatori internazionali cominciano a tracciare parallelismi atroci tra la parabola di Corbyn e quella di Donald Trump in America, entrambi palloncini che avrebbero dovuto volare su nel cielo e scomparire per sempre, mentre i commentatori inglesi non fanno che chiedersi che ne sarà della sinistra britannica, se supererà questo momento rimanendo unita, se mai tornerà al potere in tempi ragionevoli. E’ passato soltanto un anno da quando Corbyn ha sconvolto il ballo, ma il Labour è molto diverso da quel che era nell’autunno dello scorso anno – che già era un autunno doloroso, il partito aveva perso malamente le elezioni di maggio, pareva che il premier conservatore David Cameron dovesse durare per sempre. Il Labour ha riscoperto la cosiddetta base, gli iscritti sono arrivati a 515.000, “più di tutti i partiti inglesi messi assieme”, hanno scritto Jim Pickard e Henry Mance sul Financial Times, ricordando che, in un paese che considera i comizi “un volgare americanismo”, almeno 75 mila persone si sono mosse quest’estate per andare a vedere Corbyn da vicino. Questo dato è più che sufficiente per poter dire che il corbynismo è popolare, è vivace, vive nelle piazze, nelle strade, è la massima espressione di un partito del popolo che finalmente può dichiararsi lontano da quei moderati professionisti e distaccati che hanno fatto la storia del New Labour. Il problema è che tanta esuberanza dal basso, ribadita di continuo dagli araldi del corbynismo, non sembra destinata a trasformarsi in una concreta possibilità di vittoria elettorale: in altre parole, “con questi dirigenti non vinceremo mai”.

 

In questi ultimi giorni si sono moltiplicate le dichiarazioni di molti esponenti laburisti, per lo più di quelli che sono stati spazzati via dalla rivoluzione corbynista, che dicono che Corbyn è “invotabile” e che questo Labour è destinato a rimanere all’opposizione per i prossimi decenni. Nonostante le risposte piccate dei corbybinisti che accusano i loro detrattori di non aver mai vinto alcunché – si fa eccezione naturalmente per Tony Blair, l’ex premier da tre vittorie consecutive che in materia di successo elettorale non prende lezioni da nessuno: ma Blair è disprezzato in questi consessi per ben altri motivi, per la guerra in Iraq e per la sua vocazione liberale, di lui non si parla comunque, lo si fischia e basta – i sondaggi confermano la debolezza del Labour rispetto ai conservatori, con margini a volte molto larghi.

 

La trasformazione in atto nella sinistra inglese non riguarda soltanto il ritorno all’Old Labour o la retorica anticapitalista e antiliberale che condisce ogni discorso di Corbyn e del suo entourage. Il referendum sulla Brexit a giugno ha fatto emergere un altro elemento, che ha a che fare con una tradizione culturale molto ampia e profonda: il Labour oggi sta rinunciando alla sua vocazione europeista. Non è un caso che l’unica differenza sostanziale esistente tra Corbyn e il suo sfidante, Owen Smith, riguardi la Brexit: Corbyn dice che il Regno Unito dovrebbe continuare a far parte del mercato unico europeo ma avanza la pretesa  di non sottostare alle regole su competitività e diritti dei lavoratori. Come si sa, al momento il pacchetto “mercato unico” non prevede eccezioni, si prende tutto nel suo complesso o non si prende, come sanno bene i sostenitori del mercato-unico-ma-senza-libertà-di-circolazione-delle-persone. Tutto è e sarà possibile dal momento che il premier Theresa May dice che si studierà con gli europei un “modello inglese” non assimilabile a nulla di esistente, ma nel discorso di Corbyn si intravede quello che ormai tutti danno per certo: non è mai stato per il “remain”, quest’uomo qui. Owen Smith – che ha vissuto in queste ultime ore attimi di gloria perché ha raccolto i consensi pubblici (ma tiepidi, è tutto tiepido in questo Labour) di molti anti corbynisti, in particolare della ex moglie di Corbyn, la seconda, che un anno fa aveva votato per l’ex e oggi invece non ci pensa nemmeno, per ragioni che non sembrano esattamente politiche visto che dice: “Perché non è mai cambiato dagli anni Settanta” – chiede invece un secondo referendum da tenere nel momento in cui il negoziato tra Londra e Bruxelles sarò concluso.

 

Sfumata in breve tempo l’ipotesi di tenere una nuova consultazione riparatrice già quest’anno, visto che il Parlamento ha escluso questa possibilità e la Brexit si è rivelata, in questi primi mesi, meno punitiva di quanto s’immaginasse, ora l’ala europeista del Labour s’aggrappa alla possibilità di poter dire la propria dopo che il processo negoziale sarà terminato. Il problema è che però nel frattempo il Labour dovrebbe tornare al potere, cioè dovrebbe avere la forza politica per poter imporre un altro referendum al paese: ma questa è a oggi una alternativa non praticabile. Il premier May ha detto di non voler organizzare elezioni anticipate, benché molti gliel’abbiano suggerito visto che oggi gode di ampia popolarità e visto che in questo modo potrebbe levarsi di dosso le critiche di chi le dice che ha usurpato il posto di uno che era stato eletto, e anche bene. May vuole portare a termine questa legislatura, il che significa che con tutta probabilità, se il famigerato articolo 50 del trattato di Lisbona sarà attivato, come si dice, all’inizio del 2017, entro il 2020 la faccenda Brexit sarà negoziata e conclusa, comunque vada, senza che ci siano altre consultazioni elettorali, e senza che il Labour abbia almeno la possibilità di scardinare il dominio conservatore sul Parlamento e sul governo.

 

La questione Brexit resta così in questo modo a dividere internamente un partito già parecchio disunito. Ma della vocazione europeista si è comunque persa traccia. Jason Cowley, direttore del magazine New Statesman, ha raccontato sullo scorso numero la caduta della cosiddetta “Golden Generation” del Labour, quella che alla fine degli anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila era destinata a diventare leadership inossidabile del paese, sull’onda del blairismo. A parte gli aspetti deprimenti che emergono nel racconto di una generazione moderata e riformatrice che non è riuscita a rimanere maggioranza nel partito che più è stato, negli ultimi due decenni, moderato e riformatore a livello non soltanto locale ma europeo e internazionale, Cowley dà una definizione di questi uomini e donne dalle speranze grandiose che spiega che cosa è andato storto in tutto il Labour: “Molti di loro volevano diventare parlamentari. Non li conoscevo personalmente ma sapevo molto di loro – sapevo come vivevano, lavoravano, socializzavano. Alcuni di loro vivevano assieme – anzi, alcuni di loro dormivano assieme. Erano intelligenti: tutti si erano formati a Oxford o Cambridge, e alcuni si conoscevano dai tempi della scuola. Erano tutti ben introdotti, competitivi, ‘metropolitans’ amanti del calcio, liberal, buoni europei. Erano affascinati dalla politica americana, avevano studiato da vicino come Bill Clinton e i suoi consiglieri avevano reso i democratici – attraverso triangolazioni, disciplina, governo dei media – una forza centrista, ottimista, pro capitalista ed elettoralmente vincente”.

 

Quell’ispirazione è andata perduta, il partito laburista inglese oggi rifiuta l’impostazione della “golden generation”, anzi la considera la causa degli choc economici e culturali che hanno scosso l’occidente negli ultimi otto anni. L’elettorato risponde in modo poco caloroso alle contorsioni ideologiche del partito, al punto che l’ipotesi di una frattura definitiva all’interno del Labour non è più soltanto un’ipotesi. Non è un caso che alla conferenza del Partito liberaldemocratico che si è tenuta questa settimana a Brighton, il leader, Tim Farron, abbia fatto un appello agli elettori moderati del Labour non soltanto sventolando il nuovo poster-boy del progressismo contemporaneo, il canadese Justin Trudeau, ma lanciandosi addirittura alla conquista “dell’eredità di Blair”. Se si pensa che i Lib-dems fino a un anno e mezzo fa erano partner di coalizione di un governo conservatore, è chiaro quanto sia cambiata oggi la prospettiva dei politici e degli elettori moderati.

 

Dei tormenti dei reduci del New Labour Corbyn non si occupa: è molto concentrato a tenere in piedi la propria leadership. Gli affondi dei “blairiani” finora non sono stati efficaci, e grazie alla solerzia con cui Corbyn si affida al suo gruppo di volontari-attivisti di riferimento, Momentum, le character assassination degli anti corbynisti sono ormai diventate un genere a sé. In quest’anno si è venuto a creare un altro primato significativo: i parlamentari laburisti sono in netto contrasto con la leadership di Corbyn, come dimostra il golpe-kamikaze che organizzarono a giugno all’indomani del voto sulla Brexit. Ma tutti i media inglesi, che in questi giorni trasferiscono giornalisti a Liverpool per raccontare la kermesse corbynista tra piazze rosse e aree bimbi, si stanno interrogando su quel che faranno i parlamentari ribelli e tutti quegli esponenti del partito – dai Miliband in giù – che hanno dichiarato guerra a Corbyn. Proveranno a fondare un altro partito? Si uniranno ai Lib-dem? Se non sono riusciti a trovare un’alternativa al corbynismo internamente, come faranno a crearne una nuova là fuori? Le risposte ancora non ci sono, ma mai si sono viste sui social tante immagini del Parlamento inglese, in particolare durante il Question Time. Da un lato ci sono i laburisti, occhi bassi o occhi di sfida, a seconda della corrente. Una generale mestizia. Dall’altra ci sono i Tory, aria sorridente e beffarda sempre, un entusiasmo sprezzante. Guardateli bene, scrivono i commentatori: un sorriso così ce l’hai soltanto se sai che starai al potere per altri dieci anni.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi