Il velo della jihadista
Determinata, volitiva, assertiva, influente. Apparentemente la sua storia non sembrerebbe molto diversa da quella di una donna islamista, fanatica e/o ossessionata dalla guerra santa. Devota alla sua missione di fare proselitismo e propaganda sul web. E invece Khadiga Shabbi, 46 anni, arrivata da Bengasi a Palermo per un dottorato di ricerca alla facoltà di Economia e commercio, è un’islamista al centro di una vicenda giudiziaria che pare complessa quasi quanto la guerra in Libia. Agli investigatori che l’hanno seguita e intercettata per mesi sembra una figura importante all’interno del magma islamista libico. Fermata dalla Digos nel dicembre del 2015, accusata di apologia e istigazione al terrorismo, il gip l’ha scarcerata e le ha imposto i vincoli per i sorvegliati speciali: obbligo di dimora e divieto di uscire da Palermo, anche se a lei bastavano uno smartphone e un pc per continuare la sua battaglia.
Successivamente il tribunale del riesame ha accolto il ricorso del pubblico ministero della procura di Palermo che ha guidato l’indagine, il sostituto procuratore Calogero Ferrara, e infine una sentenza della Corte di Cassazione l’ha riportata in carcere nel giugno scorso. Presto comincerà il processo, probabilmente con giudizio immediato perché la procura ritiene di avere elementi sufficienti per dimostrare la sua colpevolezza. Khadiga Shabbi è l’unica donna in carcere in Italia per reati di terrorismo, oltre a Marianna Sergio, sorella della foreign fighter Maria Giulia partita per il Califfato nel settembre del 2014 con il marito mujahed albanese, Aldo Kobuzi. Khadiga però non è una disadattata, anzi.
E’ una figura complessa con molti agganci e contatti nella galassia islamista. Era una ricercatrice alla facoltà di Economia di Bengasi. Dedita allo studio accademico e votata al jihadismo, praticato da una parte consistente della famiglia di Bengasi (ma originaria della Tunisia) e molto influente nel panorama islamista libico. Dopo che è tornata in carcere, nella sezione di alta sicurezza di Rebibbia, Khadiga invoca la morte e si augura di diventare martire. Già prima, lei che viene da una famiglia benestante, appariva molto coerente nella sua battaglia per sostenere la guerra islamista contro il governo del generale Khalifa Haftar. Elemento fondamentale per capire la sua storia, durante il primo interrogatorio con il gip, ha ammesso di essere cugina di un jihadista molto influente in Libia: Wissam Ben Hamid, ex carrozziere diventato comandante della brigata One Shield di Bengasi, vicino ad al Qaida prima e ora legato al gruppo di Ansar al Sharia.
Come conferma anche Arturo Varvelli che guida un team di ricerca sul terrorismo dell’Ispi, esperto di Libia: “Wissam Ben Hamid è molto influente e non escludo che collabori anche con i miliziani dello Stato Islamico in Libia. Nel 2012 il suo nome appare già in un report del Congresso americano sui terroristi di al Qaida”, spiega al Foglio. Khadiga lavora in modo indefesso per lui, il cugino idolatrato, mettendosi a disposizione della guerra santa. Usando i social network e le chat private per far circolare informazioni fra diversi gruppi e creando anche un ponte per facilitare le sue collaborazioni con i miliziani del Califfato libico. O almeno questa è una delle ipotesi che si legge fra le righe nell’impianto di accusa contro Khadiga Shabbi. Nel luglio del 2014 Wissam, comandante della brigata di Bengasi Shield One composta da mille combattenti, viene immortalato durante una riunione con il capo di Ansar Al Sharia in Libia Mohammed al Zahawi.
Quando la ricercatrice di Bengasi è stata arrestata, a casa sua le hanno trovato 3 pc e 5 smartphone. E da sorvegliata speciale con obbligo di dimora non è tornata in università, bensì ha passato sei mesi isolata in casa, testa china sul pc, giorno e notte con tre profili Facebook, per continuare la sua attività di propaganda e continuare a fornire supporto ai jihadisti libici. Le indagini avviate agli inizi del 2015 dimostrano immediatamente la sua disponibilità a mettersi al servizio della guerra santa. A fianco delle milizie islamiste che avevano combattuto contro Gheddafi prima e contro il generale Khalifa Haftar dopo.
Khadiga Shabbi, 46 anni, è stata fermata dalla Digos nel 2015
Nel panorama caotico della Libia è difficile capire esattamente il profilo della sua famiglia, divisa al suo interno, ma è stato provato che come faceva lei a Palermo fornivano supporto ai miliziani di Ansar Al Sharia e che molti membri della famiglia sono mujaheddin. Khadiga Shabbi è finita nei dossier dell’antiterrorismo della Digos di Palermo dopo che aveva ottenuto un dottorato di ricerca in scienze economiche alla facoltà di Economia e commercio dove avrebbe dovuto rimanere fino alla fine del 2017. Appena arrivata a Palermo, per i suoi connazionali che l’hanno aiutata ad inserirsi nella facoltà di Economia, era solitaria, riservata. Poi improvvisamente ha rivelato la sua ideologia. “Sembrava un angelo, ma aveva una doppia, se non addirittura una tripla vita”, rivela un suo connazionale con una frase criptica.
Infatti dal suo profilo Facebook è emerso immediatamente il suo integralismo. Grazie anche a un video scaricato del gruppo “Giovani di Bengasi” in cui apparivano scene di addestramento, miliziani incappucciati e armati che sventolano la bandiera nera dell’Isis in cui si incita la popolazione a combattere le milizie del generale Haftar. Sebbene lei abbia dichiarato a mezzo stampa e nell’interrogatorio del gip di odiare i miliziani dello stato islamico ha scritto in una chat: “A chi dice che i giovani di Begasi sono dell’Isis, io rispondo che è vero, sono giovani religiosi a favore della costituzione dello Stato islamico. E credetemi l’Isis può essere un vero stato islamico…”.
Fra i vari documenti che ha scaricato appare addirittura un volantino da distribuire alla popolazione di Bengasi e redatto dal consiglio della Shura rivoluzionaria di Ansar a Bengasi in cui si invitava la popolazione ad uccidere i miliziani del generale Haftar in cambio del compenso di una taglia. In un passaggio significativo del volantino/appello alla popolazione di Bengasi si legge: “Grazie ad Allah che ha detto nel suo libro combatti dunque per la causa di Allah, sii responsabile solo di te stesso e incita i credenti. Vediamo in questi giorni persone che non seguono la legge di Allah e per questo abbiamo dovuto tagliargli la testa perché loro sono i predicatori della miscredenza. Il loro male è arrivato a tutti e dentro ogni casa”. E alla fine del volantino si legge: “Noi di Ansar Al Sharia Libia mettiamo un premio per chi ammazza uno di questi ricercati. Miscredente Criminale: Khalifa Haftar. Un premio di 100.000 dinari libici”. E poi di seguito appaiono altri nomi di ufficiali del generale con le somme delle taglie promesse. Inoltre la devota ricercatrice ha scaricato immagini o video di corpi di combattenti straziati, bambini armati di kalasnikov e così via.
Dopo la strage alla redazione di Charlie Hebdo, Khadiga ha aperto un nuovo profilo dove ha pubblicato la foto dei vignettisti uccisi che hanno offeso il profeta. Khadiga però non pare tanto interessata a ciò che accade in Europa, ma è concentrata sulle vicende del suo paese. A seguire e a pubblicizzare le gesta di Ansar Al Sharia in Libia. La sua fede era talmente radicata che, davanti alla critica di una sua connazionale nei confronti del cugino Wissam Ben Hamid, in una conversazione lei la minaccia, l’accusa di essere atea, ossia apostata, la maledice, augurandole di morire. Si tratta di Najat, anche lei ricercatrice, che durante la loro conversazione era terrorizzata: “Il corpo le tremava” racconta Khadiga a un’amica. E infatti poi Khadiga riceve la telefonata del fratello di Najat che intercede per la sorella. Un episodio che indicherebbe l’influenza della sua famiglia, o meglio di una parte della sua famiglia, legata ai miliziani del Califfato perché in una conversazione Khadiga si vanta: “La sua famiglia (di Najat) è preoccupata perché io sono dei terroristi dell’Isis”.
Gli investigatori tratteggiano la sua personalità a tratti come borderline, ma è stata la morte del nipote a spezzarle il cuore, pare. Abdelrazeq Fathi Al Shabbi, mujahed del fronte islamico che combatteva a fianco del cugino contro il generale Haftar e le aveva ha chiesto aiuto per venire in Italia ed evitare di essere preso dall’esercito di Haftar. Venuta a conoscenza di alcuni arresti fatti dall’esercito regolare per cercare di catturare suo nipote, lei ne ha parlato con la zia. Un ulteriore elemento di prova del coinvolgimento della famiglia di Khadiga nella guerra jihadista in Libia. Infatti successivamente la Shabbi impartisce degli ordini precisi al telefono ai familiari e ordina di farlo venire in Italia attraverso la Tunisia. “Deve andare al consolato libico in Tunisia e chiedere di poter fare un corso di italiano a Palermo”.
Nel frattempo cerca di aiutare altri mujaheddin, accerchiati dai miliziani di Haftar a venire in Italia. Arzik, nome di battaglia del nipote, viene ucciso e lei riceve la notizia al telefono da una donna, probabilmente una parente, che le confida di essere distrutta dalla morte del martire dopo un bombardamento su Bengasi nell’aprile del 2015 durante l’operazione militare delle milizie del generale Haftar “Al Karama” . Khadiga è disperata. Afferma di “non avere amici a Palermo con cui piangere e sfogare il suo dolore”, ma poi la rabbia prevale e si rivolge alla famigerata brigata Al Battar per chiedere di vendicarlo, (formata da circa 300 veterani libici protagonisti nella presa di Mosul in Siria e poi tornati in Libia per formare il Califfato). Il suo appello non cade nel vuoto e un comandante le risponde: “Faremo vendetta anche se ci vorrà del tempo”. Khadiga parla di guerra e di jihadismo sempre con altre donne.
A riprova che anche in Libia, come avviene nei circuiti dei foreign fighters in Italia, le donne hanno un ruolo attivo nella diffusione ideologica, anche se non imbracciano un fucile. In una conversazione con sua sorella, che lavora in banca, parlano del nipote, martire. “Ti ricordi del martire?”, chiede la sorella a Khadiga. “Quando era vivo non lo vedevo da un po’. Poi ho preparato da mangiare per loro e sono andata a covo di Ansar, ma avevo paura di un bombardamento improvviso”. Un episodio questo che dimostra sia l’appartenenza della brigata Shield One comandata dal cugino Wassim Ben Hamid al gruppo di Ansar al Sharia sia il coinvolgimento diretto della famiglia nella guerra jihadista. Sebbene non tutti condividano l’adesione alla battaglia jihadista e all’interno della famigli ci siano contrasti.
Khadiga ha una personalità forte, si dimostra molto assertiva anche quando parla con gli uomini. Infatti in una conversazione si spinge a rimproverare l’amministratore di un gruppo su Facebook che si chiama “Siamo quelli dal volto coperto” (16 mila follower di una formazione libica pro Isis), dandogli una lezione di comunicazione su come raggiungere più utenti. Anche se lei durante l’interrogatorio poi negherà e dirà di essersi distaccata da loro. Ma siccome ciò che lei fa segue lo schema politico e militare del cugino, si può immaginare che la relazione fra la brigata di Bengasi e i miliziani del Califfato nel marzo del 2015 sia più rodata e concreta poiché lei lascia un commento solidale a una preghiera pubblicata in memoria di un martire, ucciso a Misurata. Khadiga aiuta ed è in contatto anche con alcuni foreign fighters libici che rientrano in Europa.
Nelle chat private, Khadiga conversa un foreign fighter laureato in ingegneria in Inghilterra, che le scriveva: “L’unico modo per salvare il nostro paese è applicare la shari’a” e ora lui è tornato in Libia. Ed entra in contatto con un altro foreign fighter che ora si trova in Belgio e ha combattuto in Libia con il nipote martire. E scrive a Khadiga per dirle che erano molto amici ed esprimerle il dolore per la sua morte. Khadiga usa parole perentorie quando parla con un giovane libico, probabilmente anche lui un foreign fighter a cui fornisce un piccolo finanziamento. E gli dà indicazioni su come ritirare dei soldi in Turchia attraverso il sistema del money transfert forse per arrivare in Libia, ma è un’ipotesi perché gli inquirenti non sono riusciti ad accertare dove fosse diretto. “Quando riceverai i soldi, allora potrai essere un uomo libero”, gli dice Khadiga. E gli dà anche un numero segreto di un porto, quale non si sa. Non era la prima volta che lei forniva un sostegno finanziario: Khadiga Shabbi aveva già inviato delle piccole somme a Bengasi, in Turchia, in Malesia e a Malta.
Nella sentenza del tribunale del riesame si afferma che sono stati trovati altri indizi a suo carico perché dopo il fermo del dicembre del 2015 in una pagina creata a suo sostegno appare fra i suoi sostenitori il profilo di “Zied il libico” che posta una foto di quattro leader di Ansar Al Sharia Libya, fra cui il cugino Wissam Ben Hamid e poi un altro profilo con l’immagine di copertina di un bambino di circa un anno con un kalashnikov in mano, una bandana di colore nero, dove viene riportato l’effigie dello Stato islamico. Khadiga usa sempre il velo, lo ha tolto solo quando il gip l’ha scarcerata forse per dimostrare che gli inquirenti avevano preso un abbaglio, ma poi lo ha rimesso una volta tornata in carcere.
Il processo inizierà presto, anche se non è ancora stata fissata l’udienza, il pubblico ministero ha richiesto un procedimento con giudizio immediato perché gli inquirenti sono fiduciosi, anche se si chiedono come mai lei che una ricercatrice guadagna meno di duemila euro avrà un avvocato come Michele Andreano del che ha difeso Alexander Boettcher nel processo sulla coppia dell’acido di Milano. Indicato, pare, dalla stessa ambasciata libica che ha pagato la borsa di studio a Khadiga e una criminologa, noto volto televisivo, Roberta Bruzzone per celebrare un processo sui misteri della ricercatrice islamista.
L'editoriale del direttore