Tjahaja Purnama (foto LaPresse)

L'ascesa di Ahok, il governatore di Giacarta odiato dagli islamisti

Giulia Pompili
Venerdì scorso sono state chiuse le liste dei candidati per le prossime elezioni locali che si terranno nel 2017. L’attuale governatore della capitale, Basuki Tjahaja Purnama, alias Ahok, correrà di nuovo per guidare la megalopoli. E' un personaggio politico di cui si è parlato molto e di cui si continuerà a parlare.

Roma. Nella politica indonesiana, la poltrona del governatore di Giacarta è strategica per le elezioni presidenziali. Joko Widodo, l’attuale presidente eletto nel 2014, si è formato facendo il sindaco di Sukatra per sette anni, poi è stato governatore di Giacarta per due anni prima di scendere in campo nella politica nazionale. Venerdì scorso sono state chiuse le liste dei candidati per le prossime elezioni locali che si terranno nel 2017 in 101 province indonesiane – locali si fa per dire, perché soltanto Giacarta ha una popolazione di dieci milioni di persone, almeno quattro volte quella di Roma. L’attuale governatore della capitale, Basuki Tjahaja Purnama, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Ahok, ha annunciato che correrà di nuovo per guidare la megalopoli, e la notizia non è passata inosservata sui media internazionali. Perché Ahok è un personaggio politico di cui si è parlato molto, negli ultimi due anni, e di cui probabilmente si continuerà a parlare, in futuro.

 

Due anni fa, Ahok – cinquant’anni e tre figli adolescenti – è salito al governo della città di Giacarta come indipendente, pur avendo già servito come vicegovernatore durante l’Amministrazione di Jokowi. Era un personaggio nuovo, non legato ai partiti burocratizzati tipici della vecchia politica, e durante la campagna elettorale del 2014 aveva promesso che avrebbe lavorato per i cittadini e non per il Partito. Così ha fatto, a giudicare dai sondaggi che lo segnalano come uno dei politici più popolari tra gli indonesiani. E’ stato l’unico a far partire i lavori, fermi da anni, per dotare Giacarta di una metropolitana degna di una capitale asiatica – i lavori della prima parte del progetto dovrebbero terminare tra sei mesi. Sul suo profilo Twitter c’è una email e un numero di cellulare grazie al quale si possono mandare segnalazioni via WhatsApp (“e funziona”, dicono al Foglio abitanti locali). Due anni fa, però, Ahok aveva fatto parlare di sé soprattutto per il suo background personale. Il governatore fa parte infatti di quella minoranza di cittadini indonesiani che hanno origini cinesi e sono di religione cristiana. C’era stato un precedente nel 1964, quando divenne governatore Henk Ngatung, di origini cinesi e cattolico. Negli anni Sessanta per un cattolico fare il governatore della capitale di un paese a maggioranza musulmana sembrava impossibile. Henk Ngatung ruppe gli schemi per primo, ma è stato Ahok, due anni fa, a diventare il simbolo di una possibile evoluzione democratica della politica non solo indonesiana, ma asiatica. Quando l’Islamic Defenders Front (Fpi) lanciò una campagna contro l’elezione di Ahok, i rappresentanti politici di vari gruppi islamici andarono a incontrare il nuovo governatore in segno di vicinanza e sostegno. Su internet si diffuse l’hashtag: “Sono musulmano e sostengo Ahok”. E nel corso dei due anni in carica, il governatore si è costruito l’immagine del leader sincero e benvoluto, citando spesso il Corano e allo stesso tempo rivendicando la sua fede in nome della libertà religiosa, che in Indonesia è un tutelata dalla Costituzione.

 

Non sempre, però, le cose sono semplici. Anche perché il “modello indonesiano” colpisce proprio lì dove l’estremismo è più sensibile. Alla fine di luglio una donna buddista di origini cinesi, a Tanjunbalai, sull’isola di Sumatra, aveva detto a un vicino di casa che il volume della preghiera nella moschea del quartiere negli ultimi tempi le era sembrato particolarmente forte. Una riflessione che si era trasformata in incubo: una settimana dopo, le pagode e i templi buddisti della zona erano stati dati alle fiamme.  All’inizio di settembre i gruppi islamisti indonesiani hanno organizzato una manifestazione a Giacarta, hanno sfilato per quattro ore per contestare la candidatura di Ahok: “Non vogliamo un leader infedele. E’ scritto chiaramente nel Coreano. Non è una questione di razza”, ha detto durante la marcia il portavoce della fazione indonesiana di Hizb ut Tahrir, una delle più grandi organizzazioni islamiste del mondo. Un milione di cittadini, il mese scorso, ha firmato per chiedere “all’infedele” di candidarsi ancora.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.