Alla corte di Theresa May, tra misteri, progetti e ferite dolorose
Soltanto un anno fa, tutti la prendevano in giro, Theresa May. Alla conferenza di partito a Manchester, nel 2015, i conservatori guidati da David Cameron, vittoriosi, trionfanti e un po’ bulli (in quella loro maniera burlona, a tratti persino simpatica), pensavano che sarebbero durati per sempre e anzi si permettevano di ignorare o canzonare la ministra dell’Interno, che in quella circostanza si era lanciata in un discorso ambizioso in cui sosteneva che non fosse possibile costruire una società coesa con tassi di immigrazione tanto elevati. Lo spirito allora era raggiante, quelle note pessimiste stonavano davvero, e alcuni cameroniani andavano dicendo che la May non avesse “letto il memo”, che non si fosse accorta che quel suo modo un po’ mesto e un po’ aggressivo di raccontare il paese non aveva nulla a che fare con il suo governo e con il suo partito. Ironia della sorte vuole che, alla festa con i finanziatori del partito, Cameron elogiò pubblicamente il discorso dell’allora sindaco di Londra, Boris Johnson, e non riservò nemmeno una citazione alla May.
E’ con parecchi sospiri che i Tory si avviano verso Birmingham quest’anno – la conferenza si apre domenica – perché nulla è più come un anno fa, oggi Theresa May non deve più leggere memo scritti da altri, il capo è lei, è popolare e ha in programma di restare premier fino almeno al 2020 e nessuno oggi si sogna di beffeggiarla né tantomeno di spodestarla. David Cameron non si presenterà nemmeno al consesso di partito, così come non ci sarà il suo cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, perché le ferite aperte dal referendum della Brexit non sono chiuse, e non importa se intanto escono libri di retroscena che cercano di restaurare l’immagine dell’ex premier Cameron e di sottolineare quanto sia profondo e antico il tradimento della May: non c’è tempo né spazio né voglia di occuparsi dei dolori di Cameron, a Birmingham si parlerà del futuro e della Brexit, e per i perdenti non c’è e non ci sarà compassione.
I magazine pubblicati in questi giorni dipingono la May con corazze di ferro (con anche la collana di perle di ferro) o con i cameroniani appesi a un tacco delle sue celebri scarpe, a testimoniare un predominio senza appello. La domanda semmai è: che se ne farà la May di tanto potere? Dove porterà i Tory e il Regno Unito in questo momento epocale in cui il paese si appresta a staccarsi dall’Unione europea? A queste domande ancora non c’è una risposta: sappiamo tutto della passione di May per la cucina e per le scarpe e per le collane, sappiamo che la signora sa essere spietata nel regolare conti politici costosissimi, ma sulla gestione del potere la May resta tuttora molto riservata.
E sì che siamo di fronte a una rivoluzione del pensiero conservatore inglese: questo nuovo premier non ha soltanto espulso i rappresentanti del cameronismo, ha preso quell’esperienza – liberale, riformatrice, fiscalmente austera – e l’ha ribaltata, in parte gettata via, introducendo la sua ispirazione che appartiene a tutt’un altro contesto ideologico. Alcuni dicono che May vuole riportare il partito agli anni Cinquanta, altri sostengono che invece è l’unica ad aver compreso che i limiti della globalizzazione devono essere affrontati ora e subito, prima che il “popolo degli esclusi” s’accasi in tutt’altra compagine politica. L’appello alla “working class” che May ha fatto fin dal suo primo giorno a Downing Street si declina secondo una visione che favorisce la giustizia sociale rispetto all’austerità permanente: i conti del paese non saranno più a posto, ma la frattura sociale che si è creata – sottolineata senza tregua dai media e da altri partiti – inizierà a rimarginarsi.
Theresa May durante la sua campagna elettorale per la leadership dei Tory (foto LaPresse)
Andrew Gimson, autore di una biografia di Boris Johnson che è appena stata ripubblicata da Simon & Schuster con un nuovo capitolo che racconta i drammi della Brexit (“Boris: The Adventures of Boris Johnson”), spiega al Foglio che con l’arrivo di May si è realizzato un cambiamento culturale decisivo: è quello che lui chiama “il revival puritano”, che dà il titolo anche a un suo saggio pubblicato sull’ultimo numero del magazine New Statesman. Il revival non riguarda soltanto i conservatori, anche Jeremy Corbyn, leader del Labour, è un puritano, ma Gimson si sofferma sul mondo dei conservatori: c’è stata “una purga dei plutocrati”, dice, per favorire “i background fieramente provinciali”, che rendono i nuovi conservatori del “maysmo” (termine orrendo) “sicuri di trovare ascolto tra gli inglesi che hanno risorse più modeste, quelli che non possono nemmeno sognarsi di pagare ai loro figli scuole elitarie”.
La retorica anti privilegi non trasforma automaticamente la May in una puritana, “lei è anglicana – spiega Gimson – il che rende tutto se possibile ancora più complesso. Suo padre si è formato come prete alla Comunità della Resurrezione di Mirfield, nel West Yorkshire, dove si promuove un anglo-cattolicesimo austero, che affonda le sue radici nel socialismo cristiano. Se gli abiti della May non possono essere definiti austeri, certo il suo atteggiamento lo è. A Mirfield, ci si alza molto presto per andare in chiesa prima della colazione”. Provincia, scuole normali, molto studio, pochi vizi: questa è la formula alla base del conservatorismo secondo May.
L’incarnazione perfetta di questa visione è il chief of staff del premier, quel Nick Timothy che è il più misterioso e ricercato tra i collaboratori della May. “Viene da Birmingham – dice Gimson – i suoi genitori lasciarono gli studi a 14 anni, ma lui ha frequentato la King Edward VI ad Aston, una ‘grammar school’ per ragazzi, ed è stato il primo in famiglia ad andare all’università, studiando scienze politiche a Sheffield”. Timothy è considerato il gran visir della May, ma è imperscrutabile quanto e più di lei, e così alla conferenza di Birmingham l’obiettivo principale di molti commentatori sarà quello di svelare i misteri di questo “barbuto” trentaseienne (ogni volta che leggete dichiarazioni di “uno stretto collaboratore della May” si tratta di lui o dell’altra chief of staff aggiunta, Fiona Hill: ma Timothy è quello che scrive discorsi e strategie, è sua l’idea di ribaltare l’indirizzo sull’istruzione aprendo alle “grammar school”).
Nel marzo scorso, quando ancora non si era abbattuta la tempesta della Brexit sul Partito conservatore, Timothy scrisse un articolo su ConservativeHome che è considerato il manifesto del “maysmo”: “Dobbiamo chiederci che cosa il Partito conservatore può offrire, nel 2016, ai ragazzi della working class di Brixton, Birmingham, Bolton e Bradford. Se riusciamo a dare una risposta a questa domanda, non potremo sbagliare troppo”. La debolezza più grande dei Tory era, secondo Timothy, quella di non saper ascoltare “la gente normale”, e invitava a creare un conservatorismo “blue collar” con la priorità “indefessa” di migliorare la vita dell’“ordinary working people”. Non è un caso che questa definizione ricorra in ogni discorso della May, così come questo spiega quanto fosse inconciliabile la presenza dei cameroniani nel nuovo progetto di governo: per i cantori di un conservatorismo più vitaminico e individualistico non era possibile trovare un posto.
Le premesse della trasformazione voluta dalla May sono a oggi più o meno chiare, ma resta l’interrogativo sul futuro. Il negoziato sulla Brexit necessariamente porterà il premier a esporsi, ma nonostante lei si sia fatta avanti per il dopo Cameron – e sia stata votata – proprio perché rappresentava una figura di collegamento tra le due anime del partito, pro e contro la Brexit, quest’operazione di riconciliazione non si è concretizzata. Ci sono varie correnti di pensiero su come debba essere l’uscita dall’Ue, tra sostenitori della versione “hard” e di quella “soft” (diventata in questi giorni versione “clean” e versione “dirty”, pulita e spuria: sono parole che non spiegano nulla ma che suscitano grandi nervosismi), ex ministri che iniziano a dire che la May non è adatta a gestire questo negoziato, ed esperti che provano ad analizzare, con enormi sforzi creativi, il “modello inglese” per il rapporto con Bruxelles di cui parla sempre la May.
Tra libera circolazione e accesso al mercato unico si gioca tutta la credibilità del premier e anche la sua possibilità di attrarre l’elettorato dell’Ukip e dei laburisti che si riconoscono nella Brexit ma non del tutto nel leader del Labour, Jeremy Corbyn. Come scrive James Forsyth sullo Spectator, analizzando la “macchina May”, il premier deve stare attento a non giocarsi tutto il proprio capitale politico sulla Brexit. Ne ha bisogno per tenere duro per i prossimi quattro anni almeno, e non soltanto per non diventare un altro premier conservatore che perde il posto a causa della questione europea.
A Birmingham le attese sono alte: abbiamo scoperto che May è “astuta, sottostimata e una professionista della politica”, scrive Forsyth, ma questo non le basterà per sempre. Così, tra una cena all’Opus, il ristorante più frequentato dai conservatori alla conferenza, e una Peroni, la birra preferita dai più giovani, mentre non si fa che parlare della festa imprescindibile di ogni conferenza dei Tory, quella organizzata dallo Spectator, May sta preparando il suo discorso, un po’ umanizzante come tocca a tutte le donne leader e un po’ rassicurante: queste divisioni non sono per sempre, staremo bene fuori dall’Ue. Alcuni in segreto continuano a sognare che la May faccia come la Thatcher, che tirò fuori dalla borsetta “La società libera” di Friedrich von Hayek e disse ai suoi: “Questo è quello in cui crediamo”. Andrebbe bene un libro qualsiasi, pur di non dover continuare a interpretare ogni dichiarazione del premier più abbottonato di sempre, inseguendo senza successo un giovane barbuto troppo sfuggente.
L'editoriale del direttore