La debolezza strategica di Obama in Siria e la complicità morale. Il caso Samantha Power
Milano. Il Wall Street Journal scrive che Samantha Power, ambasciatrice americana presso le Nazioni Unite, dovrebbe dimettersi, perché si sta rendendo complice della “barbarie” della Russia e del regime di Bashar el Assad contro il popolo siriano. Per Power la responsabilità di fronte alla barbarie – questa è l’espressione che lei stessa ha usato all’Onu per denunciare l’operato russo, ma di fronte a quel che sta accadendo ad Aleppo suona quasi come un eufemismo – ha molto a che fare con la sua storia personale: nel settembre del 2001, l’allora giornalista Power pubblicò sull’Atlantic una serie intitolata “Bystanders to Genocide”, gli spettatori del genocidio, in cui denunciava il fallimento dell’Amministrazione Clinton nel comprendere e prevenire il genocidio in Ruanda. Quella serie divenne poi un libro bellissimo e di successo, “A Problem from Hell”, che fece vincere il Pulitzer alla Power, la quale divenne la paladina di quel “mai più” che molti politici americani pronunciarono dopo il Ruanda – il fondamento dell’interventismo liberale.
Power, che è una donna ironica, mondana e linguacciuta (si giocò il suo primo posto di lavoro con Barack Obama durante la campagna elettorale del 2008 quando definì Hillary Clinton “un mostro”), si è a lungo definita la “genocide chick” – chick è pulcino ma anche pupa – facendo della lotta all’indifferenza di fronte ai crimini di guerra la sua missione. Tutto sembrava funzionare bene per lei fino a che non è arrivata la Siria. Bisogna riconoscere – lo fa anche il Wall Street Journal – alla Power che spesso ha cercato di intervenire nel dare un indirizzo interventista alla strategia dell’Amministrazione Obama. I discorsi più emozionati sull’urgenza morale di fermare le stragi che Assad compiva contro il suo popolo nel 2013 (almeno duecentomila morti siriani fa) sono stati pronunciati dalla Power, così come è stata lei la più dura alle Nazioni Unite nel criticare l’operato dei russi in questo insopportabile gioco di moine diplomatiche e bombardamenti sugli ospedali del nord della Siria.
Non è dato sapere che cosa pensi davvero la Power – né che cosa pensi il segretario di stato John Kerry, anch’egli imprigionato nella strategia ondivaga di Obama – ma purtroppo poco importa. Quel che conta è che non fermando la strage di Aleppo – così come non si fermò l’utilizzo di armi chimiche da parte di Assad nel 2013 né tutto quel che è venuto dopo, che è la quotidianità siriana, gli assedi e le capitolazioni di intere aree – la Power si rende complice di quel che sta accadendo. L’accusa non riguarda soltanto l’ambasciatrice americana all’Onu naturalmente, ma segnala un passo ulteriore nel bilancio che si fa e si farà dell’operato di Obama in politica estera.
Barack Obama (foto LaPresse)
Dalla denuncia di mancanza di strategia all’attendismo che da mesi scandisce la diplomazia americana sulle questioni siriane si è passati a una condanna più esplicita, che riguarda la responsabilità morale di aver assecondato il piano russo – che non si riduce al sostegno del regime di Damasco, per quanto questo sia l’aspetto umanitario meno tollerabile – nella speranza di risolvere “la situazione complicata” della Siria, nonostante le violazioni dei patti e i bombardamenti contro la popolazione. Il Washington Post, che è da anni molto duro con l’Amministrazione Obama (ancora ieri sottolineava “l’impotenza dell’Onu di fronte ai crimini di guerra in Siria”), la settimana scorsa aveva scritto in un editoriale che la Casa Bianca “tollera le atrocità” nella questione siriana: non ci sono soltanto gli appelli tardivi contro la “barbarie”, c’è che la tolleranza è responsabilità.