La gloria del tradimento
Per dare addosso a Emmanuel Macron, ultimo traditore in ordine di data e riaffermare che il tradimento non paga, nella sua rubrica su Challenges Nicolas Domenach ha tirato in ballo un personaggio della Roma antica: Quintus Naevius Sutorius Macro, in italiano Macrone, in francese per l’appunto Macron. Fu prefetto dell’Urbe sotto Tiberio quando prefetto del pretorio e potentissimo numero due dell’Impero era Lucio Elio Seiano. Tiberio fiutò aria di cospirazione e lo fece strangolare per mano dei pretoriani di Macrone.
Emmanuel Macron (foto LaPresse)
Scrive Tacito che Tiberio aveva intuito che poteva servirsi di lui perché era ancora peggio di Seiano, più disponibile al tradimento. Infatti. Una volta entrato nelle grazie del vecchio imperatore, Macrone partecipa alla congiura ordita dal nipote Caligola e lo fa soffocare con tre cuscini mentre dorme. Siccome chi tradisce una volta può tradire ancora, Caligola, che è un filo diffidente, lo fa processare e condannare: per i servizi resi gli lascia quanto meno la scelta fra darsi la morte e conservare i propri beni oppure perdere tutto, vita e ricchezze. La stessa che nel “Padrino II” Tom Hagen, avvocato di Michael Corleone, offre a Frank Pentangeli: l’ex capofamiglia diventato collaboratore dell’Fbi non ci pensa due volte, si immerge nell’acqua calda e si apre le vene.
Dove c’è potere, c’è sempre l’ombra del tradimento, con il suo corteo di sospetti, veleni e propositi di vendetta. Emmanuel Macron, dunque: un cognome un destino. Da quando ha mollato Hollande, si è dimesso da ministro dell’Economia, fondando il suo movimento per puntare dritto alle elezioni presidenziali del maggio prossimo, è diventato il principale bersaglio della sinistra. Ha pugnalato alla schiena il presidente che è al minimo storico della popolarità riducendo al lumicino le sue già scarse chance di rielezione. Non sarebbe stato nessuno senza il presidente, sarebbe rimasto un associato ancorché brillante della banca d’affari Rothschild, non sarebbe diventato il Mozart dei consiglieri dell’Eliseo e poi un popolare ministro con l’aura del riformatore liberale. Anziché essere grato a colui che gli ha messo il piede alla staffa e aspettare il suo turno in buon ordine, eccolo che molla gli ormeggi e si mette a navigare per conto suo. Mi ha tradito con metodo, dice Hollande.
Constatazione umanamente amara ma evidente ammissione di un fallimento politico. Svela il rapporto perverso tra chi tradisce e chi è tradito in cui è sempre il primo ad avere vento e astri a favore: è lui che porta il nuovo, dimostra con un’azione amorale che la fedeltà politica è feudalità, vassallaggio, assoggettamento a ideali che sembrano alti ma alti non sono. La fedeltà mortifica il senso di sé, avvilisce lo spirito di ribellione, il più delle volte è usata per nascondere incertezze, paure e un’evidente rassegnazione alla vandea, alla vita da parco buoi in parlamento. L’ambizione personale è ragione più che nobile per tradire: se il rampante ex ministro si è infilato a 37 anni nella pletora dei candidati che si affronteranno al primo turno non è colpa di nessuno, è che nel suo foro interiore voleva essere re e ora pensa di riuscire nell’impresa.
Se vincerà, del suo tradimento non si parlerà più, in caso contrario è di lui che non si parlerà per un bel pezzo: scomparirà dalle prime pagine e dai telegiornali della sera, versione moderna della damnatio memoriae romana, incruenta certo ma non per questo meno dolorosa. Il tradimento è indifferente al contesto istituzionale, alle monarchie repubblicane come la Francia o alle repubbliche parlamentari spampanate come l’Italia: le sue conseguenze sono ovviamente più devastanti dove un uomo solo ha in mano grande potere e negli entourage, negli staff, pullulano consiglieri e scalpitano ambizioni.
Nell’Italia dell’alternanza fra centrodestra e centrosinistra, abbiamo visto governi cadere per un pugno di parlamentari passati dalla maggioranza all’opposizione o addirittura per il voto di uno solo, che magari non aveva intenzione di tradire, semplicemente non ci stava a rinnegare le sue convinzioni. I media li hanno bollati come voltagabbana, eredi del trasformismo, il cosiddetto male contratto da giovane dallo stato unitario. Gli attori quasi sempre hanno tradito per futili motivi, una poltrona, uno strapuntino o per ripicca quando non è stato per soldi: mai è emersa una motivazione forte, una volontà netta di potere personale, di affermazione di sé. Nel codice della nostra politica l’ambizione è considerata reato.
Da quando i poli sono diventati tre e si può anche giocare di sponda, il tradimento è ulteriormente svilito, i suoi effetti depotenziati. Il Denis Verdini, pontiere, transfuga e ciambella di salvataggio del governo è stato ossessione quotidiana per i suoi ex amici e gli oppositori interni del premier: ora è come scomparso dai radar, se nutre ambizioni lo fa da sotto terra scavando come la talpa. Per un po’ si è pensato che Dario Franceschini avrebbe potuto fare lo sgambetto a Renzi: si presta solo ai ricchi e in passato ha già fatto giravolte. Ma se è tradimento è pur sempre di piccolo cabotaggio, un modesto guadar di fiumare solo per cambiare la geografia interna e i rapporti di forza di un partito.
Dario Franceschini (foto LaPresse)
D’Alema invece è uscito di corsa dal vigneto di proprietà e a brutto muso si è messo a menare fendenti su Renzi. Ovviamente lui dirà che non sta tradendo nessuno, solo conducendo una più che legittima battaglia politica contro una riforma che giudica abborracciata e pericolosa. Ha detto che persino Togliatti che era Togliatti lasciò Concetto Marchesi libero di non votare l’articolo 7 della Costituzione, e Renzi di certo non è Togliatti. L’esempio non calza, è per gonzi della rete: una cosa è il singolo voto su un singolo punto senza conseguenze politiche maggiori, altro è pretendere di fare impunemente campagna per mesi contro la maggioranza del partito, cose che di solito si fanno pensando poi di uscire dai ranghi. Se Marchesi, anziché limitarsi a una orgogliosa testimonianza a futura memoria, si fosse comportato come D’Alema, Togliatti gli avrebbe mandato sotto casa la volante rossa, altro che libertà di coscienza.
Per quanti sforzi faccia per non darlo a vedere, D’Alema è mosso da risentimento, da vanità personale offesa dalla mancata nomina a ministro degli esteri europeo, non perdona al “ giovane cazzaro ” di avergli preferito la Mogherini. Non è epos del potere, è una stincata, un dispetto al condomino. Più serio fu lo sgarro fatto a Prodi nella vicenda della candidatura al Quirinale: ci si poteva aspettare che cadesse il sipario, che i congiurati venissero ripresi in un bel selfie con i coltelli tra i denti, ci sarebbe stato un fior di sconquasso, anche per la nota propensione del professore a perdonare poco e a mai dimenticare. Ma anche quel tradimento ebbe forza drammatica per una sola notte, turbò le coscienze per una settimana al più e finì risucchiato nel flusso degli umori impersonali, eterei.
Massimo D’Alema (foto LaPresse)
Quanto all’Enrico stai sereno, è solo un logico ineluttabile calcio negli stinchi accompagnato da un frontino da bullo da bar: non serve Shakespeare per raccontarlo. Istituzioni troppo orizzontali non vogliono il rafforzamento di un potere verticale, che si tratti del premierato o di un presidente della Repubblica eletto dal popolo, persino nella riforma Boschi il rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio è tabù. Pesa poi una cultura politica succube che sconsiglia di strafare, di emergere, quasi che si possa vivere felici solo nascosti. Quando abbiamo avuto a che fare con qualcuno che aveva leadership, capacità di decidere, carattere, il pensiero dominante ha deciso che era corrotto, brutale e arrogante, ne ha fatto uno spauracchio con gli stivaloni, fino a che è stato abbattuto dal comitato di salute pubblica.
Ma persino nella tragica pagina di Craxi il tradimento, che pure scavò fossati che avrebbero dovuto essere incolmabili, è finito in una bolla. L’ombra del tradimento pesa sul magico circo a Cinque stelle fin dalla fondazione, gli è consustanziale: hanno eliminato singolarmente e a pacchetti militanti e dirigenti non allineati al verbo ufficiale. E’ il comportamento paranoico e falsamente unanime tipico delle sette: nel loro caso va lasciato tempo al tempo. Per una ragione o un’altra non ce la facciamo proprio a tradire con grandezza d’animo, alla luce del sole, con piena assunzione di responsabilità: come fossimo gravati dal peso di una repubblica che è nata nell’ambiguità e nel sospetto. Ammiriamo i tempi dei Medici, dei Borgia, di Machiavelli, sentiamo un fremito quando Orson Welles recita l’apologo sull’orologio a cucù, eppure abbiamo una paura fottuta della loro arte del tradimento: ché tradire è davvero un’arte, bisogna farlo al momento giusto e nel modo giusto.
Il giovanotto fiorentino aveva cominciato bene anzi benissimo, ci aveva deliziato con il sorriso carnivoro e la cattiveria che si intravvedeva nella prontezza delle battute. Ma poi si è fermato: le tricoteuses stanno ancora ad aspettare che altre auguste teste ruzzolino nel cesto, ma la svolta neo consociativa del governo, la riapertura di tavoli di concertazione se possibile più lunghi di prima, dice che il giovane fiorentino è stato costretto a normalizzarsi. La Francia, primo paese ad aver dato vita a un embrione di stato nazionale, non assegna grande importanza alla fedeltà: il tradimento politico brilla di crudele, duratura grandezza. Jacques Chirac, per dire, è l’archetipo del traditore tradito riuscito, la sua interpretazione in entrambi i ruoli è inarrivabile. Alle presidenziali del 1974, mette in moto l’appello dei 44 deputati e ministri gollisti che tradiscono il candidato del partito Jacques Chaban-Delmas a favore dell’alleato liberale Valéry Giscard d’Estaing: non ha conseguenze decisive, Chaban ha già provveduto a farsi male da solo, diciamo che gli chiude il coperchio della bara.
A quelle del 1981 sabota la rielezione di Giscard favorendo sottobanco il socialista Mitterrand: le cronache del tempo raccontano di elettori che telefonano alla sede del partito chiracchiano per avere lumi e invariabilmente si sentono rispondere, “TSG, tout sauf Giscard”. Mitterrand vince per un pugno di voti. Nel 1995 è lui ad essere tradito. Da un barone del pompidolismo, Edouard Balladur, da lui stesso tolto dalla naftalina e rimesso a lucido. E da Nicolas Sarkozy, il pupillo, accolto come il figlio maschio che non aveva avuto e a cui aveva aperto le porte del cuore, della famiglia, del partito.
Il colpo è tremendo ma il tradito si riprende e grazie anche al training autogeno che gli fa Mitterrand viene eletto presidente: i traditori finiranno nel lungo tunnel dell’oblio. In corso d’opera presidenziale, per non perdere la mano, tradisce il suo primo ministro Alain Juppé: la riforma delle pensioni da lui proposta viene mandata al macero di fronte alla protesta e alla rabbia della piazza. Nel 2007 è tradito ancora: in effigie, crimine di lesa maestà, siccome non può più ricandidarsi vuole dire la sua sul nome del successore. A conferma che chi tradisce una volta tradisce di nuovo, Sarkozy che pure è stato perdonato a mezza bocca e riammesso a corte tenuto però a debita distanza, prende il controllo del partito, fa fuori tutti i candidati del presidente e vince. Da quando il “nano malefico” entra all’Eliseo, Chirac ha una sola ossessione: la vendetta.
La coltiva con metodo, se ne frega del Consiglio di stato dove sverna a nome di Costituzione, delle inchieste giudiziarie a suo carico riprese appena ha perso l’immunità presidenziale, se ne frega pure della salute e dei primi sintomi dell’Alzheimer: alle presidenziali del 2012 annuncia senza nemmeno un battito di ciglia che voterà per il socialista Hollande, lui, la moglie e le figlie.
Un signor tradimento, una signora vendetta, in pieno sole, che cancella di colpo la fedeltà al partito, al movimento da lui stesso fondato, a logiche di schieramento che fino a quel momento sembravano ferree, inviolabili. In più di cinquanta anni di carriera, sempre nella prima fila della destra repubblicana, Chirac si è distinto essenzialmente come traditore seriale: dei dodici anni che ha trascorso all’Eliseo resta poco al di là delle tracce dell’odio.
Si dirà che ogni tanto può anche capitare che prenda il potere un leader nevrotico, paranoico, in perenne movimento e affamato come uno squalo, eccezione alla regola secondo cui il capo ha il dovere di essere saggio, lungimirante, in grado di controllare gli istinti animali, ma non è così. E’ l’istituzione presidenziale che eccita gli animi, induce a tradire nel corso della dura selezione per essere candidato e una volta eletto lascia le mani libere per ogni rivalsa, per ogni vendetta. Il tradimento ha forza epica, tragica dignità. Mitterrand e Giscard furono fior di traditori. De Gaulle tradì la promessa solenne fatta ai suoi sostenitori: avrebbe mantenuto l’Algeria alla Francia ma quando mosse i primi passi in direzione opposta e un collaboratore preoccupato andò a dirgli “Mio Generale i nostri amici sono inquieti”, lui rispose “orbene signore cambiate amici”.
Oggi Chirac sempre più in là negli anni, riposa, silenzioso. Ma se Sarkozy dovesse sconfiggere il suo favorito Alain Juppé e di nuovo si imponesse come candidato della destra repubblicana, c’è da scommettere che balzerebbe in piedi con l’agilità dell’ufficiale di cavalleria e griderebbe che contro il “nano malefico” lui voterà per Macron. A ricongiungere così due estremi del tradimento.