Tra i redattori dello Spectator
Entrare nella redazione dello Spectator significa mettere piede in uno dei templi del conservatorismo britannico, lì dove i Tory hanno sofferto i tredici anni di lontananza dal governo studiando come rinnovare il partito, e dove oggi cercano nuovi spunti per rispolverare l’ideale della “big society”, dove le comunità mettono un freno alle disuguaglianze. Era il sogno dell’ex premier David Cameron, sarà forse il punto di partenza per un nuovo Partito conservatore guidato da Theresa May che guardi ai lavoratori, a chi si sente escluso, a chi ha ascoltato l’appello – anche dello Spectator – a sostenere la Brexit.
Oggi che i conservatori sono tornati al governo, in redazione c’è un clima rilassato, la squadra è affiatata con tanti volti giovani e giovanissimi all’interno di una redazione in cui si sente e si vede, con le prime pagine storiche affisse sulle pareti, l’orgoglio delle mille battaglie combattute. Non solo quelle vinte come nel caso della Brexit, anche quelle perdute, come fu nel 1975, quando lo Spectator era contrario all’ingresso del Regno Unito nel mercato comune. “Out – and into the world”, fuori dall’Ue e protagonisti nel mondo: è il titolo di prima pagina dell’endorsement del settimanale alla Brexit – lo stesso slogan utilizzato nella campagna perdente di 41 anni fa.
Oggi come allora, allo Spectator sono convinti di essere dalla parte giusta. Qui l’Ue è un Leviatano, un soggetto non legittimato da alcun contratto sociale con quel fastidioso vizio di ficcare il naso nelle faccende della nazione. Un Leviatano che verrà spazzato via dall’uragano della Brexit se non riuscirà a riformarsi e scendere a patti con il popolo europeo che promette di rappresentare. Perché allo Spectator la “democrazia conta”. In questo laboratorio del conservatorismo britannico, la Brexit è una pozione magica con diversi ingredienti – dall’economia all’immigrazione, dalla giustizia alla fiscalità – che danno vita a una sostanza rigenerante: la Brexit è riprendere il controllo del paese.
E’ una guerra di trincea, questa, a difesa di una linea invalicabile di democrazia e sovranità popolare, da combattere al fianco degli esclusi. La società britannica ha per troppo tempo dimenticato i perdenti della globalizzazione, invischiata com’era in questioni europee così lontane dalla realtà. Questa è l’accusa principale del settimanale conservatore all’ex premier David Cameron: non essere stato in grado di dare vita al progetto della “big society”, la grande nazione un po’ paternalistica che si prende cura anche degli ultimi. “Un partito che non ha un messaggio per queste persone è un partito con i giorni contati”, hanno scritto il direttore Fraser Nelson e il caporedattore politico James Forsyth in un editoriale-manifesto per un “nuovo partito dei lavoratori”. Con i laburisti impegnati in una guerra fratricida e gli indipendentisti dell’Ukip alla ricerca di una nuova identità, è giunto il momento di trasformare e modernizzare – finalmente, dicono allo Spectator – i Tory, traghettandoli verso un conservatorismo sociale “one nation”.
L'ex premier David Cameron (foto LaPresse)
Qui, al 22 di Old Queen Street, ne sono certi: Theresa May deve ripartire dalle idee del suo predecessore Cameron, dai suoi fallimenti. L’obiettivo coincide con quello del promesso progetto rivoluzionario del cameronismo: riparare la “broken society” con la “big society”, responsabilizzando il settore privato e lasciando a comunità e associazioni locali ampi spazi di manovra per porre rimedio alle disuguaglianze, evitando così l’intervento della mano pesante dello stato. “Il referendum ha dimostrato che, nonostante gli sforzi di Cameron, alcune disuguaglianze ancora esistono nella nostra società”, confida uno dei più giovani dello Spectator. Certo, la Brexit ha distrutto il cameronismo ma è “solo grazie all’ex premier e alla sua agenda di governo liberale e attenta ai conti che il paese potrà prosperare nel mondo”. Tassi di occupazione record, riduzione delle disuguaglianze, crollo della criminalità e un grande successo elettorale nel 2015: ecco l’eredità di Cameron. Un’eredità gettata nella spazzatura, dicono allo Spectator, con le dimissioni dalla Camera annunciate a metà settembre: un passo indietro che, come ha raccontato James Forsyth, renderà difficile per l’ex premier lasciare un’eredità che non sia solo Brexit e calcoli sbagliati durante il referendum.
Finisce la politica “posh” di Eton, inizia la stagione della “working class”. Theresa May, educata nelle scuole pubbliche, ha dimostrato di preferire figure lontane dalle élite nella composizione del suo gabinetto. Ma non ci sono altri modelli di destra che possano funzionare in questo periodo storico di grandi transizioni. Non esiste infatti alcun’altra destra al mondo che guardi a un conservatorismo compassionevole e non c’è modo di guardare oltreoceano alla ricerca di un’esperienza americana simile a quella di George W. Bush che ispirò in parte il progetto del cameronismo, sottolineano allo Spectator.
Theresa May (foto LaPresse)
In tutto il resto del mondo la destra è in crisi e messa alle strette dall’avanzata di una destra nativista: è il caso americano con l’ascesa di Donald Trump, quello francese con Les Républicaines di Nicolas Sarkozy in guerra con il Front national di Marine Le Pen e quello tedesco con i cristiano-democratici di Angela Merkel pressati dall’Alternativa per la Germania. Come ha scritto il vicedirettore Freddie Gray in un’uscita di aprile sulla “destra sbagliata”, “gli inglesi si vantano di non aver mai ceduto all’estremismo” in quanto “conservatori per natura”. Ma serve una nuova agenda per il conservatorismo sociale, che inizia da una Brexit capace di restituire una grande nazione britannica, libera dai vincoli del “provincialismo” di Bruxelles e aperta sullo scenario globale. Ma anche una grande società che sappia prendersi cura degli ultimi, dei dimenticati, dei disprezzati.
Ce la farà Theresa? Il suo futuro ruota tutto attorno all’uscita del paese dall’Ue, all’accordo che Londra riuscirà a strappare a Bruxelles. Ne sono convinti i ragazzi dello Spectator secondo i quali “è troppo presto per esprimere un giudizio”, anche se si avverte un po’ di insoddisfazione verso la Brexit sussurrata del premier May, sempre più silenziosa sul tema. “E’ normale, si gioca la carriera. Ma qualcosa potrebbe pur dire sulla strada da seguire ed i tempi” dice uno dei giornalisti seduto sul divanetto “di Boris” nello studio del direttore, dove si tengono le riunioni di redazione. Già, Boris Johnson, ex direttore dello Spectator, ex alleato di Cameron, ora ministro degli Esteri del governo May. Quando parlano di Boris i ragazzi dello Spectator sorridono: “Il Foreign Office è un buon posto per osservare e prendere appunti”.