Cosa succede in Spagna dopo il crollo socialista
Roma. I socialisti spagnoli hanno due settimane risicate di tempo per prendere la decisione più difficile della loro storia recente: offrire appoggio, attraverso un’astensione mirata, a un governo di minoranza del popolare Mariano Rajoy e andare incontro a una lunga stagione di polemiche, divisioni e sconfitte, oppure negare l’appoggio, forzare terze elezioni in un anno e andare incontro alla sconfitta elettorale più devastante di sempre. Dopo le dimissioni burrascose del segretario Pedro Sánchez, che hanno lasciato il partito frantumato e traumatizzato, e un collegio di garanti capeggiato dal governatore delle Asturie Javier Fernández a presiedere il partito, tutto sembra propendere per la prima ipotesi. In fondo, per i socialisti la ragione della più grave crisi di sempre, che ha fatto squagliare il partito storico della socialdemocrazia spagnola, era appunto questa: decidere se condannarsi a sostenere Rajoy o condannare il paese a terze elezioni, e ha vinto chi vede nel primo ministro facente funzioni il male minore.
Ancora ieri il garante Fernández diceva che “andare a terze elezioni è la soluzione peggiore di tutte”, che se Rajoy lo chiamerà per dialogare lui non si negherà e che un’“astensione non è la stessa cosa di un voto favorevole”, come a dire: potremmo lasciar governare Rajoy, ma non siamo dalla sua parte, dobbiamo iniziare a far passare il messaggio alla base. Il problema però è che la decisione sul da farsi deve prenderla il Consiglio federale del partito, che come tutto nella galassia socialista è spaccato in due, con molti che piuttosto che veder tornare Rajoy al governo condannerebbero il paese a un ciclo elettorale infinito, e per cui la regola è ancora quel “no es no” con cui Sánchez ha bloccato per mesi tutti gli aneliti di Rajoy. Il Psoe non ha ancora scelto il suo male minore, mentre gli strateghi di partito temono che adesso l’ultimo tabù verso l’italianizzazione completa del sistema politico spagnolo – quella disciplina di partito ferrea che evitava il fenomeno dei franchi tiratori e consentiva alle formazioni politiche di simulare unità anche quando non c’era – ormai stia per venire meno: nessun osservatore può immaginare davvero come voterebbero i parlamentari socialisti in caso di un voto di fiducia.
Così, non è un caso che i cronisti spagnoli raccolgano tutti lo stesso moto di esultanza tra i militanti e i dirigenti del Pp, il Partito popolare guidato da Rajoy: “Di questo passo, governiamo per vent’anni filati”. Rajoy vince sia che il Psoe gli consenta di governare sia in caso di nuove elezioni (i sondaggi danno il Pp in gran vantaggio), e forse il leader conservatore preferisce la seconda opzione. Per ora, Rajoy ha tenuto fede alla sua comprovata strategia attendista, e pur rinnovando le offerte di governo comune già fatte ai socialisti e ai centristi di Podemos ha deciso di aspettare immobile lo svolgersi degli eventi. Il premier è l’unico che non ha fretta. Anni di lotte pregresse hanno reso il partito solido dietro al suo leader, l’elettorato popolare è irregimentato e il più propenso a mettere la scheda nell’urna tutte le volte che sarà necessario, e i fatti dimostrano che più il tempo passa più Rajoy ha da guadagnarci.
Anche dentro a Podemos si sfregano le mani immaginando i voti che transiteranno dai socialisti in rotta. Il leader Pablo Iglesias è riuscito con successo a distogliere l’attenzione dalla crisi interna al suo partito, e ormai sfiora quello che era l’obiettivo iniziale della formazione antisistema: la pasokizzazione del Psoe (dal Pasok, ormai defunto partito socialista greco che non ha saputo resistere alle spinte da sinistra di Syriza), l’egemonizzazione della sinistra e la trasformazione del conflitto politico spagnolo in uno scontro a due tra Podemos e il Pp.
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