Gli intellettuali sul carro anti intellettuale di Trump
New York. Gli intellettuali che sostengono Donald Trump non condividono un manifesto né un programma, ma s’assestano su una convinzione: “Date le scelte possibili alle elezioni per la presidenza, crediamo che Donald Trump sia il candidato che ha più possibilità di restaurare la promessa dell’America, e vi chiediamo di sostenerlo così come lo sosteniamo noi”. La lista di nominativi che segue questo stringato appello, una chiamata alle armi più che una dichiarazione programmatica, è quanto di più eterogeneo si possa immaginare. Si va da Peter Thiel, imprenditore della Silicon Valley libertario e gay che giusto l’altro giorno in una conferenza all’American Enterprise Institute ha detto che “l’America è il paese della frontiera, non siamo leali verso la nostra tradizione se non cerchiamo qualcosa di nuovo” e si arriva fino a Rusty Reno, cattolico direttore della rivista conservatrice First Things, che ha scritto di recente un libro sulla “resurrezione dell’idea della società cristiana”.
La tesi fondamentale è che i due pilastri del potere americano, la cultura liberal-democratica e l’economia di mercato, si trasformano in mortali debolezze se non rimangono ancorate alle loro fondamenta cristiane. Uno s’affanna per raggiungere la Singularity, l’altro per rivalutare il Sacro Romano Impero. In mezzo ci sono intellettuali di matrice neocon come Michael Ledeen, liberisti sul genere di F. H. Buckley, neospengleriani à la David Goldman, tradizionalisti antiliberali, nostalgici del nazionalismo e internazionalisti delusi dalla globalizzazione. C’è pure un grande tycoon canadese che ha sperimentato sulla propria pelle l’accanimento per via giudiziaria dell’establishment liberal sui player non allineati: Conrad Black è a tutt’oggi persona non grata negli Stati Uniti. Non occorre una dichiarazione di intenti per capire che i firmatari di questo appello senza agenda politica arrivano a Trump da strade diverse e perfino opposte. Hanno idee antitetiche sul contenuto della “promessa dell’America” di cui parlano, e nondimeno pensano che il candidato repubblicano sia l’uomo giusto per restaurarla.
Come ha osservato Ross Douthat sul New York Times, una parte ha aderito all’appello perché è convinta che Trump, se sarà eletto, governerà come un repubblicano mainstream, un’altra parte ha invece firmato proprio perché è convinta che taglierà con la tradizione del Gop di Reagan e dei Bush. In questa grandiosa eterogenesi dei fini il consenso si concentra sul mezzo, Trump, carro vasto e carnascialesco sul quale c’è posto un po’ per tutti. Ognuno ci sale per i motivi che giudica più opportuni, coltivando una certa immagine della “promessa dell’America” che chiede di restaurare. Non è forse questo carattere amorfo e, per così dire, neutrale, una delle chiavi per decrittare l’ascesa di Trump? In apparenza lo stile becero e sboccato lo rende il più inflessibile e divisivo dei candidati, genere “o con lui o contro di lui”, ma in realtà la sua natura è liquida e il vuoto delle sue convinzioni politiche lascia spazio a chi di mestiere produce idee. La alt-right xenofoba lo considera, hegelianamente, una “astuzia della ragione”, portatore inconsapevole di una missione più alta.
Quale sia esattamente questa missione è oggetto di interpretazione, ma a questo punto si tratta di un’incertezza programmatica. Il resto lo fa l’avversione a Hillary e alla dinastia Clinton, collante formidabile, spesso avulso – a sua volta – da considerazioni ideologiche. Così l’appello senza contenuti degli “scrittori e studiosi” è la presa di posizione meno polarizzata che esista, nel mezzo di un contesto politico in cui chiunque, dal barista al presidente, da anni dice che la polarizzazione è il morbo che sta strangolando l’America.