Nei disendorsement dei giornali a Trump c'è la distanza fra popolo ed élite
New York. Per la terza volta in quasi 160 anni di storia, il mensile Atlantic ha espresso il suo sostegno a un candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Nel 1860 il prescelto era Abraham Lincoln, nel 1964 Lyndon Johnson, oggi è Hillary Clinton. Come l’ultima volta, più che di una convinta adesione al programma di un candidato si tratta del “disendorsement” di uno sfidante giudicato profondamente inadeguato. Allora il soggetto pericoloso da fermare era il senatore Barry Goldwater, ora è Donald Trump, “il candidato di un partito maggioritario meno qualificato nei 227 anni della storia della presidenza americana”, nonché un “ demagogo, xenofobo, sessista e bugiardo”.
Altre testate hanno cambiato la loro storica affiliazione di partito oppure hanno interrotto una tradizione di silenzio ed equidistanza per prendere posizione. Un porsi che più che altro è un opporsi a Trump. L’Arizona Republic, che alla sua fondazione, nel 1890, si chiamava Arizona Republican, non aveva mai dato l’endorsement a un democratico, per via di un “profondo apprezzamento filosofico per gli ideali conservatori e i princìpi repubblicani”. Lo stesso avevano fatto il Dallas Morning News e il Cincinnati Enquirer, anche loro irritualmente schierati dalla parte del candidato democratico.
Usa Today, il grande giornale popolare dell’America di mezzo, non aveva mai appoggiato un candidato alla Casa Bianca, ma questa volta ha fatto un’eccezione storica. Ora, gli endorsement dei giornali hanno un impatto elettorale prossimo allo zero, servono a marcare i confini territoriali e a contare le truppe dell’establishment, difficilmente spostano quantità rilevanti di voti. Ma questa corsa senza precedenti all’endorsement anti Trump è il segno di un tema fondamentale di queste elezioni: l’allontanamento delle élite – rappresentate dai media – dal popolo.
Comunque vada a finire il voto dell’8 novembre, Trump prenderà qualche decina di milioni di voti, e lo farà dopo aver sbaragliato la concorrenza di sedici rappresentanti della classe dirigente repubblicana in un processo di competizione elettorale aperto e trasparente. Per una fetta rilevante del paese, Trump è un leader desiderabile e credibile o comunque preferibile alla sua alternativa democratica, ma questo dato non è preso in considerazione dai giornali, pur affiliati alla tradizione conservatrice, che voltano le spalle al candidato e ai suoi elettori. Non è difficile capire perché chi vota Trump è spesso in guerra non tanto con i media di sinistra – veri o percepiti che siano – ma con i “mainstream media”, etichetta che comprende qualunque network e pubblicazione legga il mondo attraverso la lente dell’establishment. Fox News non fa eccezione.
Da decenni è la televisione di riferimento del mondo repubblicano – declassata a becera macchina della propaganda conservatrice dalla sinistra liberal – ma da quando Roger Ailes è stato costretto alle dimissioni, in mezzo a scandali sessuali che sono una cortina fumogena per coprire il conflitto titanico con Rupert Murdoch, anche il più militante degli organi di informazione s’è spaccato. Megyn Kelly, eroina di Fox che riscuote simpatie bipartisan, durante la sua trasmissione ha attaccato il collega Sean Hannity, sostenitore in capo di Trump: “Con tutto il rispetto per il mio amico che va in onda alle dieci, Trump va da Hannity e solo da Hannity e non va in posti meno sicuri di questi tempi”.
La risposta, velenosa, è arrivata via Twitter: “Chiaramente tu sostieni lei”. La crepa fra le fazioni di Fox è ormai visibile, ma la più profonda frattura è quella che divide i media dell’establishment dalla controinformazione promossa dagli imbonitori trumpiani più irriducibili, dall’infaticabile Matt Drudge all’urlatore complottista Alex Jones. E’ questo l’unico registro percepito come autentico dal popolo che ha dichiarato guerra alle élite.