Quanta Brexit c'è nella fabbrica dei sogni che fa grande il “made in Britain”
Il Regno Unito è un brand in perfetta salute e non potrebbe essere altrimenti. Quando un paese vende se stesso all’estero, vende il suo passato e una certa idea della sua tradizione, l’immaginario conservatore dei grandi prati delle scuole private, del tè con la regina o con una qualunque altra anziana di belle maniere, e della voglia di autodeterminazione, politica o personale, degli abitanti della piccola isola pop, negozianti nell’anima, capaci di grandi intuizioni culturali ma soprattutto di grande scaltrezza commerciale. “Non penso che la Brexit cambierà il prestigio dell’industria culturale britannica, anzi, il Regno Unito vende materiale ‘brexiter’ da molto prima che ci fosse il referendum, addirittura da prima che entrasse nell’Unione europea”, spiega ottimista Dominic Sandbrook, storico e giornalista che nel suo divertentissimo “The Great British Dream Factory”, la grande fabbrica dei sogni britannica, racconta come i britannici siano passati da superpotenza imperiale a superpotenza nella cultura di massa in pochissimi anni, giusto il tempo di capire quanto il mercato americano fosse assetato di cliché intelligentemente rielaborati e di prodotti dal vago sapore storico.
“Nessuno guarda alle cose inglesi pensando che siano futuristiche come quelle scandinave, per dire. Qui si commercia in tradizione, in senso di eccezionalità, nell’idea che la Gran Bretagna abbia un destino storico straordinario e diverso da tutti gli altri: un impermeabile Burberry porta con sé tutto questo, per non parlare del prodotto di maggiore successo degli ultimi anni, “Downton Abbey”, il programma più brexiter che si possa immaginare, conservatore, gerarchico, nostalgico. Il Regno Unito che piace è da sempre quello che si sente un’eccezione rispetto all’Europa, e lo dico da elettore deluso che ha votato ‘remain’”, prosegue lo storico, che nel suo libro va al fondo delle radici culturali di quel “trionfalismo figlio dell’insicurezza” alla base dell’impenetrabile psiche britannica.
“Il carattere nazionale non è definito dai politici, ma dalla musica, dalla televisione, dai romanzi” e Sandbrook ne passa in rassegna moltissimi, mettendo in risalto i legami tra i prodotti di cultura popolare e i loro antecedenti vittoriani da cui traggono forza e incisività, come “Harry Potter”, che altro non è se non una rivisitazione del classico racconto scolastico vittoriano in cui il protagonista assimila la norma e realizza al tempo stesso il suo potenziale. Partendo dal presupposto che il “made in Britain” avrebbe incontrato molta più resistenza se fosse stato ancora associato all’imperialismo, Sandbrook sottolinea come abbia invece beneficiato dell’immagine del paese come “polveroso e fuori moda” e cita una serie di esempi a sostegno di questa tesi: i Beatles iniziano ad avere un successo globale nel momento in cui il loro impresario Brian Epstein gli fa togliere i giubbotti di pelle e li veste come ragazzotti a un matrimonio, il cinema britannico conquista gli Stati Uniti quando racconta in grande pompa le gesta di Enrico V e smette di fare filmetti (per quanto profetici) come “Passport to Pimlico” – il quartiere diventa stato indipendente e forma un governo con il pizzicagnolo come primo ministro – e televisione e letteratura diventano prodotti di esportazione di massa quando raccontano la vita degli artistocratici tormentati in manieri pieni di armature e domestici onniscienti, con una particolare attenzione alle infinite sfumature sociali.
Uno dei più sapienti miscelatori di questi ingredienti è Richard Curtis, che con il suo “Quattro matrimoni e un funerale” ha raccontato al mondo esattamente quello che il mondo voleva sapere degli inglesi, con un successo astronomico. Ma la chiave di tutto non è tanto la creatività, quanto la meno poetica capacità di vendere qualunque prodotto e far tornare i conti, caratteristica comune a tutte le grandi icone britanniche, da Mary Quant a Ian Fleming fino alle anime delicate e un po’ ribelli come Kate Bush. Sandbrook dedica le pagine più gustose a raccontare come dietro l’immagine maledetta e rivoluzionaria, molte rockstar fossero decise a salire sulla scala sociale e ad accaparrarsi i simboli dell’aristocrazia, succubi della “mistica della casa di campagna”.
(foto LaPresse)
Dai Rolling Stones, che spesero i primi soldi per comprare un maniero con terreno, Redlands, fino al più venale di tutti, John Lennon, che mentre cantava al mondo “Imagine no possessions”– una canzone il cui testo sembra una risposta di una candidata a Miss Mondo, spiega perfido – andava accumulando il suo patrimonio immobiliare per realizzare il suo più grande sogno, ossia lavorare il meno possibile, tutti hanno ceduto alla tentazione di giocare alla Royal Family. Seguendo quel concetto di Self Help messo a punto già in età vittoriana, gli artisti pop britannici hanno scalato il mondo, rimanendo kitsch e nazionalpopolari come Elton John, massima autorità del pop, uno che quando ha cantato “Candle in the Wind” a Westminster ha segnato la storia, oppure ultraterreni e imprendibili come David Bowie, sempre nel segno della fuga, dell’eccezionalità. E’ una storia raccontata troppe volte perché la gente non ci creda nel profondo.
“Il Regno Unito ha un’immagine di sé che di fondo non è compatibile con il progetto europeo e qualunque cosa un politico dica o faccia, non può disfarla in una notte – spiega Sandbrook – L’esperienza del Regno Unito in Europa dimostra che c’è un sacco di gente che pensa ‘Ho bisogno di più tempo’ o ‘Non mi sento europeo’, e questo credo risalga alla fabbrica dei sogni e alle storie con cui siamo cresciuti, che dicono tutte che il Regno Unito non è europeo”. Più ci pensa e più gli sembra inevitabile, che il 52 per cento dei britannici abbia deciso di uscire dall’Ue. “Ho votato per il remain senza tanto entusiasmo, temevo soprattutto per l’assenza di un piano definito. Ho sentito tanta gente disperata dire che questo voto ci mette con le spalle al muro, ma penso che sia esagerato. Il Regno Unito era molto aperto prima del 1973, penso che ci sarà un divorzio complicato, confuso, noioso, ma non credo cambierà molto”.
Al tema euroscettico classico dell’indipendenza, della libertà, del destino straordinario ed eccezionale dei britannici si associa quello dell’avversione all’immigrazione, vero protagonista del dibattito sull’Europa. “L’immigrazione è stata molto impopolare fin dagli anni 60, la gente non la ama perché c’è l’idea che tenga bassi i salari e peggiori il tenore di vita, ma negli anni 60 l’economia stava migliorando per tutti, l’occupazione era ai massimi, c’erano salari in netta crescita. Eppure erano gli anni di Enoch Powell” e del suo famoso discorso sui “fiumi di sangue”, spiega lo scrittore, secondo cui l’establishment politico sta scoprendo a proprie spese come sia inutile, se non controproducente, cercare di far cambiare idea alla gente sui benefici dell’apertura.
“Puoi dare lezioni su come ci sia bisogno di essere più tolleranti, ma se i cittadini pensano che l’immigrazione sia un attacco a quello che li rende unici, non ci si può fare niente”, e quanto sia radicata questa idea utopistica di una comunità stretta e solidale si capisce dal successo di prodotti televisivi come “Coronation Street” e “East Enders”, programmi fiume durati per decenni e fondati sull’idea di mostrare la Gran Bretagna come la gente vorrebbe che fosse, un luogo utopico in ci si conosce tutti e in cui cui si aiuta a vicenda. “Può non essere interamente realistica, ma per molti appare verosimile”, scrive Sandbrook, secondo il quale l’uccisione della deputata quarantenne Jo Cox, in un paese capace di creare icone dal nulla, “è stata dimenticata subito perché è un tema che mette a disagio, pone delle domande sulla rabbia che esiste sotto la superficie delle comunità piccole, e la gente non ci vuole pensare”. L’immigrazione, in un paese che ha dimostrato di avere più nostalgia di “Coronation Street” di quanto si pensasse, “non si può spiegare in termini di costi e benefici”, non è facile raccontare che con l’arrivo degli operai polacchi la comunità starà meglio.
“Ma questo non significa che i britannici si metteranno a lanciare i pogrom”, assicura, convinto che il moltiplicarsi degli episodi di razzismo dopo il referendum sia dovuto solo a un aumento dell’attenzione dopo il referendum. “Non credo che Londra cambierà, è già cambiata abbastanza. Chi non ci vive non la percepisce più come una città inglese”, prosegue Sandbrook, sottolineando come gli elementi di cosmopolitismo del passato si siano espansi fino a rendere la capitale quasi irriconoscibile. “Questo non è mai stato il paese dei cosmopoliti, è sempre stato molto euroscettico, ma è un grande paese e di grande successo. L’idea che possa non sopravvivere al 23 giugno è assurda”.
La finanza e le industrie creative hanno sempre attirato talenti stranieri e negli anni 80, quando c’era Margaret Thatcher, è diventata un magnete, un polo d’attrazione che nessuna capitale europea è ancora riuscita a mettere in discussione. “Sicuramente sarà più difficile per i nuovi arrivati venire a Londra, ma il suo essere aperta ha sufficiente slancio, massa critica, non diventerà un deserto da un giorno all’altro”. Magari qualche giovane europeista si sentirà offeso dalla Brexit e non ascolterà band britanniche, forse il boom dei pezzi d’arredamento con la Union Jack avrà una brusca frenata, ma se le esportazioni culturali americane hanno continuato a prosperare anche durante la guerra in Vietnam, per Sandbrook, non c’è nulla da temere.
“Che ci sia un legame tra la disapprovazione di una cultura politica e la disapprovazione dei prodotti d’intrattenimento è tutto da dimostrare”, aggiunge lo storico. James Bond e Agatha Christie, l’ossessione per le classi sociali, le case di campagna simbolo di un passato mitico di cui impossessarsi, l’universo tolkieniano che riprende le leggende arturiane, tutto parla di fuga, tutto parla di evasione e libertà, e pazienza se l’invasore questa volta non solo era gentile, ma non era neanche un invasore. A ragione o no, dice Sandbrook, “non mi spezza il cuore vederci andare via”.