Non solo Matthew. Così Haiti è diventata la Repubblica delle ong
Roma. Tutti i media internazionali stanno seguendo la devastazione dell’uragano Matthew, che ha seminato al suo passaggio morte e distruzione, ma forse in pochi si sono accorti di un aspetto inusitato, del suo curioso carattere di “uragano elettorale”. La scorsa settimana è piombato sul voto in Colombia, per esempio, contribuendo alla bassa affluenza alle urne per il referendum riguardante il processo di pace con le Forze armate rivoluzionarie. E’ piombato poi sulla campagna elettorale in corso in Florida, mentre andava in scena il più acre duello tra il candidato repubblicano Donald Trump e quello democratico, Hillary Clinton. Soprattutto, però, l’uragano Matthew ha contribuito all’ennesimo ritardo di un processo elettorale che ad Haiti è già prorogato da parecchio tempo. E proprio il delicato contesto politico nel paese più povero dell’America latina spiega un attacco del governo ad interim haitiano riguardo alla politica dei soccorsi internazionali, che potrebbe sembrare acido, ma che in realtà trova più di una motivazione in quel che è avvenuto negli ultimi anni nello sfortunato paese caraibico.
“Non ci serve riso, ci serve migliorare i canali di irrigazione per produrre il riso”, ha detto il primo ministro Jocelerme Privert. L’osservazione che è meglio regalare una canna da pesca che un pesce è antica, ma ad Haiti il problema è acuito dal modo in cui il massiccio flusso di riso a basso prezzo o addirittura gratis ha impedito il decollo della risicultura nel dipartimento dell’Artibonite, la regione dalle possibilità agricole più promettenti. Addirittura, l’ira dei contadini dell’Artibonite per questa sorta di dumping umanitario è stata individuata come una delle cause della rivolta armata che nel 2004 costrinse alla fuga il presidente Jean-Bertrand Aristide. Polemica di Privet anche sul numero delle vittime, in un momento in cui la cifra ufficiale era di 288: “Parlano di 800 morti, mi sorprende che non facciano cifra tonda e arrivino a mille. Tra un po’ diranno che ce ne sono centomila”. Insomma, le ong starebbero lanciando di proposito un allarme maggiore di quel che è, in modo da poter raccogliere più fondi e avere più motivazioni per intervenire.
Altri politici haitiani hanno preso le distanze dai toni di Privert. Ma ad Haiti, malgrado l’indubbio impegno di tanti benintenzionati, i protagonisti della “industria del soccorso” arrivati sia dopo la guerra civile del 2004 sia dopo il terremoto del 2010 non sono particolarmente popolari. Grave per esempio fu il caso dei Caschi blu nepalesi, responsabili di un’epidemia di colera che uccise diecimila persone e per cui l’Onu ammise infine la propria responsabilità solo dopo averla ostinatamente negata per ben sei anni. Proprio questo negazionismo provocò una rivolta contro la Minustah, la missione Onu a guida brasiliana, presente sull’isola dal 2004. E i Caschi blu repressero quei moti nel sangue, sparando sulla folla che protestava. Il brasiliano Ricardo Seintefus diede allora le dimissioni da rappresentante ad Haiti dell’Osa, dopo aver accusato l’Onu di voler trasformare gli haitiani in “prigionieri della propria isola”.
E pure la Croce Rossa Usa era finita nell’occhio del ciclone, per una sottoscrizione di 500 milioni di dollari raccolti con la promessa di dare nuove case a 130.000 haitiani terremotati. Un’inchiesta di ProPublica rivelò che ne aveva costruite solo sei, più un ospedale e qualche strada. Più in generale, nacque la definizione polemica di Haiti come “repubblica delle ong”, accusate di lavorare per perpetuare l’emergenza all’infinito secondo quello schema denunciato dall’economista africana Damisa Moyo nel suo best seller “La carità che uccide”. Ad Haiti per il terremoto del 2010 (magnitudo 7, 230 mila morti stimati) arrivarono ben 12 mila ong: il più alto numero pro capite di cooperanti del mondo. Ma solo 150 di queste hanno inviato rapporti frequenti e puntuali sulle attività svolte.