Il grande fratricidio
Le strategie parallele di Pence e Ryan per salvare Trump e il Gop
New York. Il momento di crisi di Donald Trump ha il duplice volto di Mike Pence e Paul Ryan. Uno è il candidato vicepresidente che fa dichiarazioni asciutte sul comportamento “indifendibile” del suo compagno di ticket, delinea una visione di politica estera più simile a quella di Hillary – e infatti viene scaricato in diretta televisiva: “Non ne abbiamo parlato e io non sono d’accordo” – e incassa le simpatie di tutti quei repubblicani ribelli del Congresso che sulla scheda vorrebbero mettere il suo nome, non quello di Trump. Ma Pence è anche il prestigiatore che in un attimo risale sul carro del candidato, come se nulla fosse, affettando entusiasmo e lealtà trumpiane e bacchettando sulle nocche quelli che fino a un attimo prima lo guardavano come l’ultimo rappresentante del senno conservatore. Pence è l’uomo chiamato a tenere insieme alleanze impossibili e a percorrere crinali ideologici arditi. Ieri ha rimproverato il suo dirimpettaio nella flessione di Trump: “Paul Ryan è un mio amico, sì, ma con tutto il rispetto non sono d’accordo con la sua posizione in questa campagna. Credo davvero che i leader repubblicani dovrebbero unirsi a milioni di americani e sostenere il candidato repubblicano alla presidenza”. Lo speaker Ryan, dal canto suo, ha mollato politicamente Trump ma non ha ritirato il suo endorsement, che può sembrare una questione di lana caprina, un piccolo conflitto lessicale, ma è un modo per navigare in una zona politicamente ambigua.
“Non difenderà Trump” è la formulazione ufficiale, che nei fatti significa che ai deputati ha detto di sentirsi liberi di “trattare Trump come meglio conviene” nelle singole elezioni. Ryan ha rinunciato a presentarsi sul palco con Trump dopo l’uscita del video del 2005, e al posto del presidente doveva andare proprio Pence: l’apparizione avrebbe sigillato un patto fra due fazioni che non sono divise da un confine chiaro, ma condividono un’ampia zona grigia. Poi anche questa operazione è saltata. Gli anti Trump hanno già abbandonato la nave, ora la guerra è fra i trumpiani irriducibili e quelli che hanno accettato il verdetto delle primarie a naso turato, ma ora sono troppo disgustati. Ryan non ha preso alla leggera la decisione di smarcarsi dal candidato. Il giovane leader si gioca tutta la carriera in questa elezione. In caso di vittoria di Hillary Clinton, che ha il chiaro favore dei numeri in questo momento, la perdita della Camera significherebbe non soltanto il fallimento della candidatura eterodossa di Trump, ma anche quello di un establishment che nell’ambito della campagna per il Congresso ha lavorato ampiamente in modo indipendente rispetto ai dettami della Trump Tower. Il Gop deve mantenere almeno 29 seggi – su un totale di 45 giudicati contendibili – per avere il controllo della Camera. La strategia di Ryan consiste nel concentrarsi sui distretti centristi dove Trump non è popolare, e paradossalmente deve sperare che l’ondata negativa che ha investito il candidato dopo l’uscita della registrazione non sia troppo violenta: un trauma eccessivo tende a generare reazioni a catena che penalizzano tutti i candidati, quindi anche i repubblicani che dal primo giorno hanno voltato le spalle a Trump. Sono gli antagonisti del candidato a doversi guardare dai distanziamenti eccessivi se vogliono mantenere la poltrona. Da qui la scelta di Ryan di confermare a denti strettissimi l’endorsement, una manovra tutto sommato analoga, nello spirito, a quella di Pence, che manda segnali di disagio e poi rientra nella mischia. Uno deve salvare se stesso e il partito in caso di sconfitta, l’altro tenere alta la velocità della macchina elettorale senza perdere il controllo.