Usa 2016, Donald Trump in campagna elettorale a Panama (foto LaPresse)

Fatti sotto, Donald!

Giuliano Ferrara
Non è arrivato il momento, per chi conosce l’arte del governo delle repubbliche, di fissare un confine esemplare con coloro che sono esperti nella scienza della comunicazione e basta, che si insegna nelle università a legioni di poveri futuri disoccupati, e che insieme con la parola “comunicazione” dovrebbe uscire dalla vita e dal lessico delle persone sagge? Sono stregato dalla simpatia invereconda del cialtrone in chief, ma ringrazio il cielo che mia moglie abbia votato per Hillary.

Visto che Maureen Dowd, l’unica trumpista chic del mondo, ci ha detto nel New York Times come voterà sua sorella, male male, e Siegmund Ginzberg ci ha raccontato su Repubblica come voterà suo figlio, prima Bernie e ora un cazzone di indipendente, ecco che mi è venuta la tentazione, nel piccolo amato Foglio, di comunicare che mia moglie ha già votato Clinton. Mi trattengo. Lo ha già fatto lei stessa, su Sky, e lì mi fermo con i dettagli domestici, Selma non mi perdonerebbe l’intrusione. Però vi suggerisco di riflettere su una frase detta ieri da Hillary in un comizio, intanto. “Quando ero nella situation room per assistere con il presidente e lo staff alla sequenza della cattura di Bin Laden, Donald stava registrando il suo reality show. Vuole mettere in discussione trent’anni di esperienza politica: bè, fatti sotto!” (l’espressione inglese è: bring it on!). Non è efficace?

 

Non è finalmente arrivato il momento, per chi conosce l’arte del governo delle repubbliche (papato romano compreso, che è una monarchia), di fissare un confine esemplare, incandescente, anche insultante, con coloro che sono esperti nella scienza della comunicazione e basta, quella scienza di merda che sa di moderno, che si insegna nelle università a legioni di poveri futuri disoccupati, e che insieme con la parola “comunicazione” dovrebbe uscire dalla vita e dal lessico delle persone sagge? Io dico di sì. Stavolta Hillary è stata molto viva e puntuta, calda al punto giusto, il suo reality ha colpito lo show. E’ un colpo ancora più duro di quello che Trump si è dato da solo facendo il gradasso con le donne in un privato osceno, e vendendo l’immagine pubblica della famigliola americana esemplare in un’aura pubblica puritana, ipocrita. Perché dico questo? Perché ho letto Mark Leibovich e il suo splendido ritratto della candidata in campagna, pubblicato domenica nel magazine del New York Times, quello che finisce con lei ultima barriera prima dell’apocalisse (iperbole fantastica ma non destituita di fondamento).

 


Hillary Clinton (foto LaPresse)


 

Prima di questa lettura pensavo che la Clinton, l’avevo appena scritto qui, si incarnasse troppo nei dossier: le policy, l’agenda delle cose fatte e da fare, la competenza nel descrivere guasti e rimedi possibili nel mondo e nelle case americane con in mano le conoscenze necessarie in storia, geografia, demografia, sociologia, economia e altri strumenti di intervento nel reale. Il dossier richiama la polvere che vi si deposita sopra invariabilmente. Richiama la definizione di “secchiona” che magari è capace anche di non passare il compito al compagno. Odiosa. Manca l’anima, quella che si dice l’empatia, e il rischio è la freddezza – orrore! – “comunicativa”. Il contrario di Donald, che non sa un cazzo, ma quel cazzo che non sa lo sa dire benissimo, risulta simpatico, entertaining, e spara fuochi d’artificio come a Piedigrotta. Bene. Leibovich, chiacchierando con lei in campagna, mostra che la sua è una freddezza calcolata, motivata, benedetta da una visione delle cose che con la sua elezione a presidente (spero, mi tocco) riceverà una consacrazione oggi indispensabile.

 

La rivelazione del risvolto della poca empatia della candidata è questa: Hillary detesta i selfie, a cui si piega poco e malvolentieri, osa ancora credere nei contatti personali significativi più che nella potenza delle immagini, legge pure la Ferrante invece che gli articoli di Freccero, e si spinge fino a dire che stanno nascendo problemi di mental health, di salute mentale, derivati da tante dipendenze dal circuito delle informazioni senza senso della democrazia diretta e webbara (quella cosa alla Grillo in salsa Zagrebelsky). Sono un account di Twitter anch’io, passo ore al computer dove trovo tutto quel che mi serve, il cazzeggio, il porno, la maldicenza, le enciclopedie, i dizionari di latino e greco, il classico e il moderno, e sono stregato dalla simpatia invereconda del cialtrone in chief (copyright Christian Rocca), ma alla fine penso che per non esser governati da bamboline imbambolate o da mercanti di bellurie ci vogliono tipi tosti, gente delle élite, che hanno conosciuto il dolore della vita pubblica, che hanno senso della realtà, che sanno raccogliere fondi per la campagna elettorale, che non promettono la luna e che quando i cialtroni si esercitano nell’art of the deal, anche per non pagare le tasse, fanno discorsi ben remunerati ai banchieri di Wall Street e riconoscono la doppia dimensione, riservata e pubblica, dell’azione politica. Bring it on, Donald.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.