Usa, a St. Louis il secondo confronto televisivo tra Hillary e Trump (foto LaPresse)

Hillary e Donald a confronto con il superesperto Sasha Issenberg

Paola Peduzzi
Giornalista, scrittore, uno dei più grandi esperti di campagne elettorali e dell’arte di vincere le elezioni, Issenberg spiega la differenza tra i due candidati alla Casa Bianca come un gap tra "cultura dei dati”, comunicazione e preparazione. “Clinton sta facendo una campagna moderna, Trump si basa sull’istinto".

Milano. L’elezione del presidente degli Stati Uniti del 2016 è uno scontro tra “la vecchia scuola e quella nuova”, dice al Foglio Sasha Issenberg, giornalista, scrittore, autore di “The Victory Lab”, che non è il suo ultimo libro ma è quello che lo ha consacrato come uno dei più grandi esperti di campagne elettorali e dell’arte – sempre più raffinata, ed estranea ai programmi o ai dibattiti o agli scandali, ai palpeggiamenti o agli hackeraggi – di vincere le elezioni. Issenberg dice che “Hillary Clinton sta facendo una campagna moderna, usando i dati sugli elettori che sono stati raccolti negli ultimi otto anni da quella macchina elettorale grandiosa che è Barack Obama: questo è un vantaggio enorme, perché permette di controllare il processo elettorale nel dettaglio, costruire messaggi specifici e targetizzati”.

 

Questa “cultura dei dati” è del tutto diversa dalla tattica di Donald Trump che si basa “sull’istinto”, sull’“assenza di sofisticazione”, sul messaggio lanciato ai comizi sempre uguale, sempre lo stesso, buono per il pubblico trumpiano preso nel suo insieme. Conta anche il tempo, dice Issenberg, “Trump è stato certo di essere il candidato repubblicano tra il maggio e il giugno scorso, ha accumulato un grande ritardo rispetto a Hillary, che si prepara da un anno e mezzo e può approfittare di un insieme di dati costruito dal Partito democratico in otto anni di presenza alla Casa Bianca”.

 

Questo “gap” in “risorse e preparazione” è straordinariamente ampio, riguarda anche il fundraising e la sproporzione tra i SuperPac dell’uno e dell’altra (Hillary ne ha molti di più), oltre che una struttura di campagna elettorale che per la candidata democratica è “capillare” e per il candidato repubblicano è invece più “di massa”, dice Issenberg, che individua però anche una differenza strategica fondamentale (e a questo punto, quando inizia a parlare di “likley e unlikley voters”, sembra di entrare in una puntata di “West Wing”, di avere Josh Lyman all’altro capo del telefono, e sarà la suggestione, le voci da aeroporto che si sentono ogni tanto di sottofondo o la troppa televisione vista, ma la voce di Sasha è identica a quella di Josh).

 

“Trump parla al suo elettorato, non fa nulla per allargarlo – dice Issenberg – Il suo è un obiettivo di mantenimento, coccola chi già ha deciso di votarlo”. Hillary invece, anche a causa delle tante resistenze dentro al Partito repubblicano nei confronti del proprio candidato, punta a prendere i voti dei repubblicani che non votano Trump, degli indipendenti, di quel mondo, che è diventato largo con la presenza di Trump ed è molto indeciso. “Hillary vuole convincere gli indecisi e dare una spintarella a chi è tiepido nei suoi confronti, per portarlo effettivamente alle urne”, spiega Issenberg, ed è per questo che ci sono uffici sparsi ovunque, volontari, porta a porta, incontri ristretti, a tu per tu, per generare quell’entusiasmo che, nella politica americana moderna, è esclusivamente legato al fenomeno Obama. E’ quello l’obiettivo: mantenere la “coalizione Obama”, che garantisce la vittoria.

 

Issenberg è per questo “piuttosto scettico” riguardo alla possibilità che la maggioranza silenziosa di cui parlano spesso i trumpiani esista davvero e si materializzi alle urne. C’è già un modo per farsi un’idea di quel sta accadendo: in molti stati si è iniziato a votare e se non bisogna cadere nel tranello di intuire dall’early voting il vincitore, sono invece utili i dati sull’affluenza perché iniziano a quantificare quanto successo hanno avuto le campagne di mobilitazione (in Iowa per sempre si è finora registrato un calo di richieste degli “absentee ballots” dei democratici rispetto al 2012: non significa ancora nulla, ma vai a dirlo ai clintoniani). Se però dal punto di vista organizzativo non c’è storia tra la campagna di Hillary e quella di Trump, se il “fervore trumpiano” non è poi così consistente, e forse nemmeno sufficiente, com’è che la gara è ancora così aperta? “Sta nella debolezza dei candidati – dice Issenberg – che è la stessa per entrambi: sono ‘unlikable’”,  Hillary e Donald insieme, ugualmente antipatici.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi