I magic numbers dell'America
Ogni quattro anni, più o meno a questo punto della corsa elettorale per la Casa Bianca, cioè quando il voto è vicino, si comincia ad andare nel dettaglio di numeri, proiezioni, storici, “swing states”, cambiamenti democratici e scommesse. L’arte della previsione è andata migliorando molto, si possono stimare con una certezza quasi assoluta molti fenomeni e molti trend, ma restano comunque i margini di errore e quell’imprevedibilità che nemmeno gli studi più accurati possono catturare. In questa stagione elettorale in cui è già stato commesso un errore enorme – sottovalutare le prospettive di Donald Trump – che nessuna giustificazione o motivazione o ammissione ha potuto correggere, l’imprevedibilità prende il nome invero poco statistico di “fervore trumpiano”. Il presidente del Pew Research Center dice che si tratta di “una sfida multidimensionale”. Da un lato bisogna valutare la “timidezza” degli elettori che non dicono di votare Trump, anche se lo fanno. Molti esperti sostengono però che gli elettori di Trump possono essere sfuggenti sotto molti aspetti, ma di sicuro non sono timidi: sono orgogliosi del loro voto e del loro tifo, e ogni volta che si trovano a favore di telecamera ripetono di non farsi ingannare dai media o dai sondaggisti, vinceremo noi. Se quel che si vede è quel che è, la variabile che diventa decisiva è quella della mobilitazione: i partiti o i candidati anti establishment hanno dimostrato già in altre occasioni – vedi la Brexit – di riuscire a movimentare un elettorato che solitamente non vota, e che quindi presumibilmente non è conteggiato nelle stime che si fanno basandosi sui dati storici. Se davvero il “fervore trumpiano” si realizza in una grande mobilitazione – cui magari corrisponde un voto tiepido per Hillary Clinton – allora le sorprese non sono da escludere. Per l’intanto, ci limiteremo a parlare di stati, di sondaggi, di proiezioni per capire che piega sta prendendo, da qui al voto e in particolare durante la notte elettorale, l’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti.
L’unico numero da ricordare: 270
Il collegio elettorale degli Stati Uniti è l’istituzione che elegge il presidente e il vicepresidente ogni quattro anni: i cittadini americani non eleggono direttamente l’inquilino della Casa Bianca e il suo numero due, ma eleggono dei rappresentati, cosiddetti “grandi elettori”, che hanno preso l’impegno di votare il candidato repubblicano o quello democratico. Il numero degli elettori, deciso stato per stato, equivale al numero di membri del Congresso eleggibili in quello stato, che a sua volta dipende dalla densità di popolazione dello stato. In tutto quindi gli elettori sono 538, che corrispondono a 435 deputati, 100 senatori e i tre elettori addizionali attribuiti al District of Columbia. Per essere eletti alla Casa Bianca bisogna conquistare un minimo di 270 elettori.
L’affluenza
Storicamente gli Stati Uniti hanno avuto un’affluenza bassa alle urne rispetto alle altre democrazie occidentali. Gli studiosi di questioni elettorali continuano ad affannarsi per capire il perché, visto che altri dati – la partecipazione alle attività politiche locali, l’impegno civico ecc. – escludono che si tratti di totale apatia politica di una larga fetta della popolazione. Non a caso, gli stati dove un partito vince con maggiore scarto sono anche quelli dove l’affluenza è più bassa: magari quelli che non vanno alle urne sono, nel loro cuore, attivisti ferventi che non sentono il bisogno di manifestare la loro preferenza in un contest senza storia. Una motivazione riguarda gli ostacoli burocratici che scoraggiano gli elettori: per votare occorre registrarsi, cosa che implica moduli, uffici, scadenze di cui è facile dimenticarsi. Poi si vota di martedì, non nel fine settimana, retaggio del tempo che fu: la domenica si osservava il divieto di viaggiare, il lunedì con la carrozza o in qualche altro modo ci si metteva in viaggio dalle campagne verso il seggio più vicino, il martedì si votava. Così oggi l’election day cade in un giorno lavorativo qualsiasi: un altro deterrente. I condannati per certi delitti, poi, perdono il diritto di voto: avendo l’America la più grande popolazione carceraria al mondo, questo significa che circa il 2,5 per cento della popolazione in età elettorale non può partecipare alle elezioni. Nel 2008, la grande corsa di Barack Obama, l’affluenza ha toccato il 58 per cento, paragonabile agli anni di Kennedy e Lyndon Johnson. Quattro anni fa si è fermata a quattro punti in meno, flessione normale quando c’è un presidente in cerca di rielezione.
I voti si pesano
Non tutti gli elettori sono uguali, ci sono quelli che contano di più e quelli che contano meno. Ognuno non vale uno. Questo dipende dalle enormi discrepanze di popolazione fra i vari stati: il Wyoming è quello meno popoloso (584.153 abitanti), ma non può avere meno di un deputato e due senatori a Washington (e quindi tre grandi elettori). Di conseguenza, il peso del voto di un elettore del Wyoming è superiore a quello di tutti gli altri americani. Il suo “voting power” è sette volte superiore a quello di un newyorchese, che chiude questa speciale classifica. Che questo coefficiente non abbia conseguenze in termini reali lo dimostra il fatto che i candidati nemmeno per sbaglio si fanno vedere in Wyoming, dove vincono a mani basse i repubblicani, né a New York, che una volta chiamavano la città più occidentale dell’Unione Sovietica. Gli stati davvero contesi sono quasi tutti nella parte bassa del ranking sul “peso” del voto. Rimane però l’obiezione di principio sull’iniquità della rappresentanza, determinata molto prima che si stratificassero le abitudini di voto e la mappa si colorasse in un certo modo di rosso e blu. Chi è il responsabile del doppiopesismo dell’urna? Il più pop dei padri fondatori, Alexander Hamilton, con le sue simpatie monarchiche e il suo sospetto verso i principi democratici in purezza.
Il rosso e il blu
Il voto della stragrande maggioranza degli americani è prevedibile: c’è un’America fortemente democratica e una altrettanto fortemente repubblicana. Il nordest, le grandi metropoli, la costa pacifica e le città universitarie votano a sinistra; le grandi pianure, il paese rurale e la zona montuosa a destra, con percentuali bulgare che tendono al più bulgaro ancora. Il sistema winner takes all rende inutile la presenza dei candidati nei territori avversari, cosicché ogni cantone continua a radicalizzare le proprie posizioni. Il rosso diventa sempre più rosso, il blu sempre più blu. Lee Drutman del think tank New America ha scritto: “Invece di essere una nazione con due partiti, stiamo diventando due nazioni monopartito”. Oltre 350 dei 538 grandi elettori non sono contendibili. Nel 2012 soltanto in quattro stati la corsa è finita con un divario inferiore al quattro per cento. In tutti gli altri il distacco medio era del 19,6 per cento, un abisso. Nel 1976 venti stati sono finiti con un distacco al di sotto del cinque per cento. Se si considera il rinnovo della Camera dei deputati la tendenza alla polarizzazione è ancora più evidente: su 435 seggi, soltanto 25 sono davvero in gioco, in un’altra ventina ci sarà battaglia ma c’è già un candidato chiaramente favorito.
Un po’ di numeri: la fonte principale è la media compilata da RealClearPolitics, nel caso si utilizzassero cifre e stime di altri istituti, sarà segnalato.
Sulla base dei sondaggi e degli andamenti storici, al momento a Hillary Clinton sono attribuibili 256 grandi elettori, a Donald Trump 159. Per diventare presidente bisogna toccare quota 270
Gli stati rossi (Trump) sono questi, si va in ordine di rosso, rosso fuoco i primi (sicurissimi) e rosso a varie sfumature andando verso il fondo. In tutto si contano 159 grandi elettori attribuibili a Trump:
Alabama +11 per cento – 9 elettori
Arkansas +24,5 per cento – 6 elettori
Kentucky +13 per cento – 8 elettori
Idaho +21 per cento – 4 elettori
North Dakota + 11 per cento – 3 elettori
Oklahoma +24 per cento – 7 elettori
West Virginia +22,5 per cento – 5 elettori
Wyoming +31 per cento – 3 elettori
Louisiana +13 per cento – 8 elettori
Mississippi +15 per cento – 6 elettori
Montana +13 per cento – 3 elettori
South Dakota +14 per cento – 3 elettori
Tennessee + 11 per cento – 11 elettori
Alaska + 9 per cento – 3 elettori
Kansas + 11 per cento – 6 elettori
Indiana +8 per cento – 11 elettori
South Carolina +7,6 per cento – 9 elettori
Texas +6,7 per cento – 38 elettori
Missouri +9,2 per cento – 10 elettori
Utah +13 per cento – 6 elettori
Gli stati blu (Clinton) sono questi, vale lo stesso ordine di sfumature detto sopra. In tutto si contano 256 grandi elettori attribuibili a Clinton:
Massachussetts +22 per cento – 11 elettori
New York +20 per cento – 29 elettori
California +19,7 per cento – 55 elettori
Maryland +32,6 per cento – 10 elettori
Vermont +21,5 per cento – 3 elettori
Hawaii +30 per cento – 4 elettori
District Of Columbia – 3 elettori
Illinois +14,7 per cento – 20 elettori
Oregon +11 per cento – 7 elettori
Washington +13,7 per cento – 12 elettori
Rhode Island +20 per cento – 4 elettori
Delaware +15,5 per cento – 3 elettori
New Hampshire +6 per cento – 4 elettori
Wisconsin +6,7 per cento – 10 elettori
Colorado +7,3 per cento – 9 elettori
Michigan +9 per cento – 16 elettori
Minnesota +4 per cento – 10 elettori
Pennsylvania +8,6 per cento – 20 elettori
New Mexico +8,5 per cento – 5 elettori
New Jersey +11,4 per cento – 14 elettori
Connecticut +9 per cento – 7 elettori
Nel Nebraska e in Maine non vale la regola “winner takes all” e gli elettori vengono assegnati in modo proporzionale. Si tratta di 5 elettori per il primo e di 4 per il secondo: secondo i sondaggi, in Nebraska Trump è al 56 per cento e Clinton al 29; in Maine Clinton è al 45 per cento e Trump al 38.
I mitici swing states
In tutto, secondo le proiezioni a oggi, gli swing states riguardano l’assegnazione di 111 grandi elettori. Si tratta di: Florida (29 elettori), Ohio (18 elettori), North Carolina (15 elettori), Nevada (6 elettori), Iowa (6 elettori), Arizona (11 elettori), Georgia (16 elettori), Virginia (13 elettori).
Tra questi, i più chiacchierati sono Florida e Ohio, perché il primo è lo stato della tragedia del candidato presidente Al Gore e della conta della Corte Suprema (c’è tuttora una corrente di pensiero che specula sugli “if”, come sarebbe andata la storia se Gore avesse vinto la Florida) e perché il secondo è lo stato-che-non-puoi-non-vincere-se-vuoi-fare-il-presidente (a meno che di cognome non fai Kennedy).
In Florida ci sono 29 grandi elettori e al momento i sondaggi rilevano un leggero vantaggio per Clinton. Alla fine di settembre, i valori si erano ribaltati, il consenso di Hillary era calato molto e Trump ha avuto un picco. La media dei sondaggi di RealClearPolitics indica Clinton in vantaggio di 2,7 punti percentuali: di tutti i sondaggi nello stato, soltanto Emerson dà avanti Trump, di un punto percentuale.
Ispanici cubani – cioè conservatori e con poche simpatie per i messicani – pensionati bianchi ed ebrei ortodossi sono i gruppi da conquistare per vincere uno stato che si decide in due o tre contee chiave.
L’Ohio conta 18 grandi elettori e la fama di essere lo stato che decide il presidente. E’ talmente in bilico oggi che Hillary è data in vantaggio di 0,5 punti percentuali, cioè di niente, considerati i margini d’errore.
La North Carolina ha 15 elettori e viene da settimane molto burrascose in cui Trump è stato molto in vantaggio e con una certa costanza. Negli ultimi dieci giorni, Hillary ha raggiunto l’apice del consenso. Al momento la media dei sondaggi la dà in vantaggio del 2,6 per cento.
In Nevada, 6 grandi elettori, è stata in vantaggio la Clinton per tutta l’estate: non in vantaggio, in straordinario vantaggio. A settembre è iniziata un’inversione di tendenza che ha portato su Trump di parecchio e all’inizio di ottobre, i due sono stati dati in parità attorno al 42 per cento. Ora nella media dei sondaggi, la Clinton è avanti di 1,4 punti percentuali.
Qui Trump ha pronunciato il suo leggendario: “I love the poorly educated”.
In Virginia, 13 grandi elettori, la Clinton è saldamente in vantaggio con uno scarto del 7,5 per cento.
La scelta di Tim Kaine, senatore della Virginia, come candidato vicepresidente ha un senso strategico chiaro: vincere questo stato potrebbe permettere a Hillary di raggiungere quota 270 senza conquistare Florida e Ohio.
L’Iowa, lo stato in cui tutto è piatto (il gadget femminile più ricercato è la maglietta con la scritta sul petto “In Iowa non tutto è piatto”), conta 6 grandi elettori ed è stato combattutissimo – sostanziale parità – per quasi tutta la campagna elettorale. Oggi invece il vantaggio di Trump si è consolidato, e nella media dei sondaggi il candidato repubblicano è avanti di 3,7 punti percentuali.
.@paolapeduzzi @ilfoglio_it la foto, per dovere di cronaca pic.twitter.com/rTUhTLiJSb
— Mattia Ferraresi (@mattiaferraresi) October 14, 2016
L’Arizona ha 11 grandi elettori ed è considerato generalmente uno stato rosso, nemmeno Barack Obama lo ha espugnato. Trump è sempre stato in vantaggio, lo è ancora oggi, ma soltanto di un punto percentuale.
Il ritiro dell’endorsement a Trump da parte di John McCain, senatore dell’Arizona, è manna per Hillary. I democratici da tempo sognano di trasformarlo in un “purple state”.
La Georgia, con i suoi 16 elettori, è stato un battleground state per buona parte dell’estate, ma con settembre il divario tra Trump e Clinton è aumentato, a vantaggio di Trump, che ora è avanti di 5 punti percentuali.
In sintesi: se Hillary Clinton dovesse conquistare la North Carolina, il Nevada, la Virginia e vincere in Maine, potrebbe anche perdere la Florida e l’Ohio ed essere comunque eletta presidente. Se Donald Trump dovesse vincere il Nebraska, i tre stati battleground in cui è in vantaggio – Iowa, Arizona e Georgia – e anche la Florida e l’Ohio ancora non raggiungerebbe la quota magica di 270 elettori.
A cura di Paola Peduzzi e Mattia Ferraresi