Francoforte il giorno dopo alle proteste Blockupy contro la Bce (foto LaPresse)

Gli spifferi anglosassoni portano vento forte sulla Banca di Francoforte

Alberto Brambilla
America e Regno Unito sganceranno altre bombe sulla Bce? Saranno respinte?

Roma. Spira un vento gelido sulla Banca centrale europea. Mentre da settimane gli investitori mondiali si chiedono se il programma di stimoli della Bce che ha sostenuto i mercati dal marzo 2015 stia raggiungendo il suo limite o meno, alcuni giganti dei media anglo-americani diffondono notizie capaci di ferire la credibilità dei guardiani dell’area euro, costringendo l’Eurotower a smentire le indiscrezioni oppure ad abbozzare repliche alle accuse.

 

Il 4 ottobre l’agenzia americana Bloomberg riportava, citando anonimi funzionari Bce, che nei mesi passati si stava cercando consenso “informale” all’interno del Consiglio direttivo al fine di ridurre gradualmente gli acquisti di titoli pubblici del programma di Quantitative easing (che vale 80 miliardi mensili), prima della sua scadenza prevista nel marzo 2017. Questo avrebbe significato che la Bce si sarebbe allineata alla strategia di riduzione degli stimoli, detta “tapering”, applicata dalla Federal Reserve per tornare a convergere con i Signori del dollaro. La notizia ha determinato il malessere dei mercati europei e asiatici in quei giorni. Il capo della comunicazione della Bce, Michael Steen, l’aveva smentita  con un tweet dicendo che non era stata discussa una riduzione degli stimoli, circostanza confermata anche dalle minute Bce. Anzi, sia Mario Draghi, il presidente della Bce, prima, sia Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, poi, avevano dato indicazioni nel senso contrario, ovvero di un prolungamento degli acquisti oltre il limite temporale del marzo 2017 “se necessario”.

 

Il 12 ottobre l’agenzia britannica Reuters batte un’esclusiva, secondo “fonti a conoscenza della situazione”, opposta alle rivelazioni già smentite di Bloomberg. Secondo Reuters, all’Eurotower si vocifera di modificare la composizione degli acquisti “forzando temporaneamente o parzialmente” la regola “capital key”,  quella che determina la quantità di titoli pubblici che la Bce può comprare da ogni stato membro secondo il rispettivo peso economico nell’area. Per il banchiere centrale tedesco, Jens Weidmann, e il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, tale dogma non deve essere infranto – hanno avuto modo di affermarlo in diverse occasioni. “Questo – nota infatti Reuters – potenzialmente potrebbe ridurre gli acquisti di debito tedesco rischiando di rinnovare il conflitto tra la Bce e Berlino, che ha già avvertito che la Bce sta sussidiando i paesi indebitati”, ovvero quelli euro-mediterranei, l’Italia per esempio. Per non parlare di come una simile decisione potrebbe dare carburante fresco al partito euroscettico Alternative für Deutschland, avverso a una politica monetaria iperespansiva favorevole ai paesi più indebitati. Reuters pone certe cautele e avverte che la decisione, in caso, non arriverebbe prima di dicembre – quando per coincidenza ci sarà il verdetto sul referendum costituzionale sul quale il governo di Matteo Renzi si giocherà la faccia. La Bce non ha voluto commentare, avrà modo di farlo nel Consiglio direttivo del 20 ottobre prossimo.

 

Il quotidiano della City, il Financial Times, probabilmente più di altri ha infilzato la credibilità della Bce. Il 10-11 ottobre “ha appreso” e rivelato che Deutsche Bank, prima banca tedesca e ora in panne, aveva ricevuto un “trattamento speciale” negli stress test di luglio potendo includere la vendita della quota detenuta nella banca cinese Hua Xia ai fini della simulazione condotta dalla European Banking Authority e vidimata dalla Vigilanza della Bce – quando in realtà non l’ha ancora venduta a oggi. La replica della Bce è stata rituale.

 

Cadranno dunque altre bombe anglosassoni su Francoforte? Saranno respinte?

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.