Matteo Renzi incontra il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama (foto LaPresse)

Come cambia il pivot italiano tra Washington e Mosca dopo l'8 novembre

Marco Valerio Lo Prete
L’ultima cena di Obama con Renzi. I dossier domestici sul tavolo e il ruolo futuro dell’asse Roma-Mosca. Perché una vittoria della democratica Clinton o del repubblicano Donald Trump non sarà indifferente per il futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Russia.

Roma. Stasera l’Italia sarà il paese-commensale scelto dagli Stati Uniti per uno “state dinner” di particolare importanza. Si tratta della prima occasione simile per il nostro paese dall’ormai lontano 1998 e allo stesso tempo dell’ultimo “state dinner” pianificato dal presidente Barack Obama prima della sua dipartita dalla Casa Bianca. Gli analisti delle due sponde dell’Atlantico non hanno mancato di inanellare possibili chiavi di lettura, tutte verosimili, sul significato della presenza a Washington della delegazione italiana, guidata dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Da Palazzo Chigi, dietro le quinte, fanno osservare “il timing perfetto” in vista del referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre; si attendono un endorsement delle riforme approvate finora dall’esecutivo, pur rimanendo cauti sull’utilità di un appoggio esplicito in vista della prossima scadenza elettorale (il sostegno pubblico dell’ambasciatore americano a Roma è stato fortemente criticato dall’opposizione).

 

Da parte americana si ricorda come il presidente del Consiglio italiano sia stato il primo in Europa a schierarsi con la democratica Hillary Clinton in vista delle elezioni del prossimo 8 novembre; si osserva poi che quello di Renzi è stato il governo più apertamente favorevole all’accordo di libero scambio Ue-Stati Uniti (il Ttip) e quello più scettico dell’imperante austerity a trazione tedesca, quello che ha consentito fin da subito l’utilizzo delle basi americane nel proprio territorio per le operazioni in Libia e infine uno di quelli che nel Vecchio continente hanno dato via libera alla partecipazione di un proprio contingente armato al rafforzamento della Nato nell’Europa orientale. Si arriva così al dossier russo, il più spinoso del momento, argomento ineludibile nel confronto tra Roma e Washington.

 

Ieri infatti, mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel faceva sapere di essere aperta a nuove sanzioni contro la Russia in ragione del suo coinvolgimento nella guerra siriana, Roma si attestava su tutt’altra posizione. Al termine del Consiglio dei ministri degli Esteri in Lussemburgo, il nostro ministro, Paolo Gentiloni, ha invocato per Mosca un ruolo “frenante” nei confronti del dittatore siriano Assad, dopodiché ha ribadito la propria contrarietà a nuove sanzioni. E’ noto d’altronde che la Farnesina già scalpita da mesi per mettere in discussione anche le sanzioni decise sulla scorta della crisi ucraina. E mentre ieri il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, annunciava possibili “risposte asimmetriche”, l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, l’italiana Federica Mogherini, assicurava che di ulteriori sanzioni contro Mosca finora non si è parlato. A rendere il tutto più fluido, e dunque imprevedibile, non ci sono soltanto gli sviluppi mediorientali, ma anche gli scenari diversi che per Roma si apriranno dopo l’Election Day americano.     

 

Una vittoria della democratica Clinton o del repubblicano Donald Trump non sarà indifferente per il futuro delle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Come ha detto tra gli altri l’analista americano Ian Bremmer al Corriere della Sera, “la linea di politica estera dell’ex segretario di stato (Clinton, ndr) sarà più interventista rispetto a quella di Obama”. Accanto a una probabile escalation di guerriglia informatica tra i due paesi, quasi a pareggiare i conti post campagna elettorale, “nei primi tre mesi della nuova presidenza i rapporti tra i due paesi potrebbero scendere al minimo storico degli ultimi venticinque anni. Si aprirebbe una fase di grandi rischi e pericoli”. Parola di un analista tutt’altro che antipatizzante della Clinton.  

 

In questo contesto l’Italia, paese Nato al centro dell’Europa e del Mediterraneo, dovrà probabilmente rivedere il suo ruolo di pivot tra l’Aquila e l’Orso. Secondo Germano Dottori, analista di geopolitica e docente alla Luiss, le polemiche della scorsa settimana sull’invio di truppe italiane in Lettonia, al confine tra paesi Nato e Russia, “sono soltanto l’antipasto dei tempi difficili che Roma potrebbe sperimentare nel caso di una vittoria della Clinton – dice al Foglio – Lo schieramento in questione è certamente simbolico, ma indica pure quanto gli spazi di manovra a nostra disposizione possano restringersi”. Se già sotto la presidenza Obama, dunque, il governo italiano ha faticato a vedere riconosciuti e difendere i suoi più stretti legami – politici ed economici – con Mosca, dal 2017 la questione si potrebbe complicare ulteriormente. Dottori, sull’ultimo numero della rivista Limes, ha scritto un lungo saggio per decrittare l’attuale posizione russa.

 

Dottori riconosce lo sforzo economico fatto da Mosca per puntellare la sua Difesa, anche se la spesa militare americana, nel 2015 pari a 596 miliardi di dollari, è ancora nove volte superiore a quella russa (66,4 miliardi). L’autore fa notare pure che oggi sono i russi, nei loro documenti strategici, ad aprire al cosiddetto “first use” dell’arma nucleare a causa della loro netta inferiorità nel campo convenzionale, invertendo la situazione rispetto alla Guerra fredda. Per Dottori, “neanche il brillante impiego dello strumento militare per recuperare rilevanza in medio oriente può nascondere il fatto che le Forze armate russe si trovano nel pieno di un processo di trasformazione e ammodernamento che mira ad accrescerne le capacità difensive e di dissuasione, piuttosto che a dotarle di decisive potenzialità offensive”. Conclusione allarmante di Dottori per il futuro: la Russia “indebolita e attaccata ovunque non ha altra scelta che ricorrere di più allo strumento militare, alimentando l’avvitarsi delle relazioni con la Nato in una spirale negativa che sarebbe opportuno spezzare. La diplomazia italiana si sta impegnando in questa direzione, pur non negando la solidarietà del nostro paese agli alleati che si sentano in pericolo. Restiamo però dei comprimari”. Renzi, da stasera, dovrà iniziare a rifletterci su in maniera più continuativa.