Obama vuole dare un colpo definitivo a Isis. Il progetto politico può attendere
Milano. La tormentata storia di Barack Obama e l’Iraq è arrivata ieri a quello che, presumibilmente, sarà l’ultimo capitolo: la battaglia per riprendere Mosul dallo Stato islamico, che nel 2014 l’aveva conquistata facendone la propria capitale irachena. Fin dal suo primo mandato presidenziale, Obama si era posto l’obiettivo di porre fine alla presenza militare americana in Iraq. Tutti gli sforzi saranno concentrati in Afghanistan, aveva detto l’allora neo presidente, ingaggiando uno scontro interno alla sua Amministrazione per definire una strategia adeguata a Kabul e nel frattempo completare il ritiro delle truppe dall’Iraq.
In Afghanistan – teatro della cosiddetta “guerra giusta”, secondo le parole di Obama – c’è stato prima un minisurge, poi un progressivo ritiro, bloccato a metà strada in seguito alla recrudescenza talebana: le truppe americane rimaste, circa 10 mila, inizieranno a ritirarsi alla fine del 2017, ma il piano di disimpegno è destinato a passare nelle mani del prossimo inquilino della Casa Bianca. In Iraq, invece, Obama vuole sfruttare quest’ultima occasione per dare un colpo decisivo allo Stato islamico, che nel 2014 occupava il 40 per cento del paese e che ora ha circa il 10 per cento del territorio, ma continua a mantenere Mosul, città simbolo della campagna americana in Iraq, fin dai tempi dell’invasione del 2003.
Obama aveva celebrato il ritiro delle truppe dall’Iraq nel 2011 con un fragoroso “welcome home” che determinò parecchie divisioni all’interno dell’Amministrazione, con il Pentagono che chiedeva di lasciare almeno 24 mila effettivi e un negoziato al ribasso voluto dai “civili” del governo, in particolare dal vicepresidente Joe Biden, che voleva porre fine a quella “goddamn war”. Nel frattempo l’accordo di sicurezza con il governo di Baghdad inizialmente negoziato dall’Amministrazione Bush – allora l’Iraq era ancora governato dal premier sciita Nouri al Maliki – era collassato, non si trovava un’intesa sul numero di militari da lasciare per garantire la transizione politica e militare, cioè l’inclusione dei sunniti e l’addestramento dell’esercito (di quel fallimento è responsabile anche Hillary Clinton, che allora era segretario di stato e che, come Obama, sottovalutò le conseguenze del mancato accordo con Baghdad). Così si arrivò, il 18 dicembre del 2011, al ritiro completo delle forze combat dall’Iraq.
Ora la presenza militare degli americani in Iraq è di oltre cinquemila truppe (5.262 secondo le fonti del Pentagono), più 1.400 persone circa che lavorano all’ambasciata a Baghdad. Il Pentagono ha annunciato a fine settembre l’intenzione di mandare 500 soldati in Iraq, che si sono aggiunti ai 4.650 già presenti – inviati in più riprese dall’Amministrazione Obama, soltanto tre da aprile a oggi, da quando cioè la coalizione anti Stato islamico in Iraq ha iniziato a essere più precisa negli attacchi. L’incremento di truppe fa parte di quella “dottrina incrementale” che ha caratterizzato l’ultima fase della presidenza Obama, che riguarda mezzi e aree geografiche: continuando a escludere l’invio di “boots on the ground” il presidente ha allargato la presenza militare sul terreno in Iraq e ha ampliato le operazioni aeree in Siria, Libia, Yemen e Somalia.
I giornali americani che già da fine settembre parlano dell’“imminente” campagna di Mosul segnalano il fatto che, nonostante i tentennamenti, le cautele, gli invii di forze, speciali e no, a singhiozzo, ancora non c’è un piano per il dopo, a Mosul. Questa è la preoccupazione più grande: che cosa ne sarà della città, e della provincia di Ninive, una volta che sarà liberata? Quotidiani liberal come il New York Times e il Washington Post considerano inevitabile e necessario l’intervento a guida americana contro lo Stato islamico – semmai lamentano la mancanza di altrettanto decisionismo in Siria, dove la presunta triangolazione con la Russia ha fatto perdere tempo e forza alla guerra contro il gruppo di al Baghdadi – ma allo stesso tempo mettono in guardia l’Amministrazione Obama di fronte all’“errore bushiano”: non avere un piano di nation building praticabile (si rischia “un caos maggiore”, scrive addirittura il Washington Post).
Il generale William F. Mullen, che è stato il vice delle operazioni americane in Iraq fino al giugno scorso, ha detto in un incontro al Washington Institute for Near East Policy che il governo iracheno pensa che una volta caduta Mosul “si troverà una soluzione”, ma “questo non è un buon piano”, anzi è un piano “tremendo”. Il generale David Petraeus, che da Mosul guidò l’unica fase promettente della campagna irachena che portò al “risveglio sunnita” e alla collaborazione locale contro al Qaida, ha spiegato che l’unico modo per non trasformare la liberazione della città in un disastro politico è costruire un consiglio di unità nazionale, che punti all’inclusione di tutti gli interlocutori. Al momento queste discussioni sembrano fantascientifiche: la campagna di Mosul è appena iniziata e l’obiettivo dell’Amministrazione Obama è dare un colpo brutale allo Stato islamico inibendo la possibilità di una recrudescenza. Il passo successivo, scrivevano in questi giorni alcuni giornali, è Raqqa, la capitale siriana dello Stato islamico. La ricostruzione e la transizione politica non fanno parte della dottrina incrementale del presidente americano: l’efficacia dei blitz mirati – riscontrabile in Iraq – è l’obiettivo unico del pragmatismo estremo.