Un ebreo davanti al Muro del Pianto di Gerusalemme (foto LaPresse)

L'Unesco e la leadership palestinese contro la pace

Daniel Mosseri

La mozione approvata dall’agenzia Onu per la cultura che nega i profondi legami storici, culturali e religiosi dell’ebraismo con i luoghi santi della Città vecchia di Gerusalemme per Abu Toameh, giornalista arabo-israeliano, è una mossa che contribuisce a rendere un miraggio la pace tra israeliani e palestinesi. Allo stesso modo delle politiche di Mahmoud Abbas.

Berlino. “L’Unesco lavora contro la pace delegittimando Israele”. E’ tranchant il giudizio consegnato al Foglio da Khaled Abu Toameh riguardo la mozione approvata dall’agenzia Onu per la cultura che nega i profondi legami storici, culturali e religiosi dell’ebraismo con i luoghi santi della Città vecchia di Gerusalemme e in particolare con il Muro occidentale (il cosiddetto Muro del Pianto) e con il Monte del Tempio. Abu Toameh, giornalista arabo-israeliano classe 1963, avvia la sua conversazione dal recente “assist” internazionale fornito alla leadership palestinese. Una mossa che contribuisce a rendere un miraggio la pace tra israeliani e palestinesi. Perché la pace si fa in due e una delle due parti non è assolutamente pronta a firmarla, tantomeno a governarla. Abu Toameh analizza la politica di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, e il suo giudizio è impietoso. Nell’erede di Yasser Arafat e nei suoi accoliti, l’analista del Gatestone Institute ed editorialista per 17 anni del Jerusalem Post, vede solo una dirigenza corrotta, chiusa in se stessa, “prigioniera delle sue stesse bugie”. Fra i nemici dello stato ebraico, Abu Toameh riconosce a Hamas almeno il dono della chiarezza: “Vogliono sostituire Israele con uno stato islamico”.

 



Si va in piazza contro l'Unesco

 

 

Abu Toameh ragiona sul riavvicinamento fra Israele e una parte del mondo arabo a cui ha accennato il premier israeliano Benjamin Netanyahu all’Assemblea generale dell’Onu: “Si riferiva ad alcuni paesi del Golfo, ma soprattutto ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Giordania. Questi ultimi sono il ‘quartetto arabo’ il cui scopo è mettere ordine nella casa palestinese, ossia riconciliare Fatah al suo interno e poi questa con Hamas”, nell’ottica di una pace con Israele. Un piano che fa molta paura ad Abu Mazen – nome di battaglia di Abbas – sia per il tentativo d’ingerenza sia perché l’Olp ha sempre chiesto agli arabi di non normalizzare le proprie relazioni con lo stato ebraico prima di una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

 

“Hamas non la pensa diversamente. Almeno su questo punto palestinesi laici e islamici sono d’accordo, ovvero condividono lo stesso disaccordo nei confronti del mondo arabo”. Contro l’Olp e a fianco di Hamas – prosegue Khaled – ci sono Qatar e Turchia, schierati con la Fratellanza musulmana, di cui Hamas è la costola palestinese. Se lo scenario regionale è come sempre frammentato, quello interno palestinese non va meglio. Dal 2006, anno dell’espulsione manu militari di Fatah da Gaza a opera di Hamas, continua la guerra fredda fra questa e l’Olp, e i due movimenti “non riescono a mettersi d’accordo neanche sulle elezioni municipali”.

 

Indette per ottobre, le elezioni municipali sono state annullate a settembre dalla Corte suprema palestinese. Secondo Abu Toameh, “Abbas si è reso conto di aver sbagliato nel convocarle” per paura di perderle anche in Cisgiordania. “Fatah è molto divisa. diversi candidati vorrebbero sostituirsi al presidente in carica”. A 22 anni dal trasferimento dell’Olp da Tunisi a Ramallah, “c’è ancora che chiama Abbas e i suoi ‘i tunisini’”, un’espressione che tradisce divisioni profonde, di carattere clanico, “ma che non corrispondono a strategie diverse bensì alla guerra per il controllo delle fonti di finanziamento di Fatah e dell’Olp”, due organizzazioni presiedute da Abbas. Il quadro politico è identico a quello che dieci anni fa portò Fatah a perderele elezioni parlamentari a favore di Hamas, “salvo che oggi della divisione ideologica fra islamici e laici nessuno parla più”.

 

 

Tant’è che per le municipali ormai saltate era anche stato siglato un accordo trasversale per la candidatura a Nablus di Adly Yaish, uomo di Hamas sostenuto pure da Fatah per mettere il cappello sul politico dato per vincente. Una mossa necessaria, sottolinea Abu Toameh, visto che “Abbas controlla al massimo il 30 per cento della Cisgiordania, o almeno ne è convinto”. I detrattori del presidente palestinese lo indicano ormai da anni come “il sindaco di Ramallah”, “ma è vero che nessuno lo vede mai a Nablus, la prima città palestinese, né Jenin o a Tulkarem, salvo apparire alla messa di Natale a Betlemme”. Di recente le televisioni mondiali hanno inquadrato Abbas in prima fila al funerale dell’ex presidente israeliano Shimon Peres. “Certo! Quando non è Ramallah, Abbas viaggia all’estero”.

 

Nelle parole di Khaled si riscontra sempre un velo di amara ironia, eppure la sua lucida analisi è ben poco allegra: “Abbiamo un presidente 81enne all’undicesimo anno del suo mandato quadriennale, un Parlamento che non funziona, una stampa asservita al potere, nessun dibattito sulla successione al presidente”. Senza dimenticare che a Gaza non è permesso criticare Hamas “e lo stesso vale per Fatah nella West Bank”. E’ proprio con l’incompetenza dei loro dirigenti che Khaled spiega perché i palestinesi sono cosi lontani dall’avere uno stato proprio. Né le cose vanno meglio sotto il profilo economico: se a Gaza “la situazione è disastrosa, nella West Bank l’Autorità palestinese non fa sviluppo, ma con i suoi 200 mila dipendenti su due milioni di abitanti pratica solo il clientelismo”.

 

Un problema aggravato dall’assistenzialismo dell’Unrwa, l’agenzia creata ad hoc dalle Nazioni Unite per i palestinesi. “L’Unrwa ha solo perpetuato il problema dei profughi, perché non li ha mai incoraggiati a crearsi una nuova vita. E peggio ancora ha gonfiato il problema concedendo lo status di rifugiato ai figli e ai nipoti dei profughi”. Il problema dei rifugiati, spiega, è diventato più grande delle sue dimensioni effettive “perché ogni giorno ricordiamo a queste persone il loro diritto al ritorno nelle città israeliane”. Ci sono centri per il diritto al ritorno in ogni campo-profughi e ostelli a Gaza in cui ogni stanza porta il nome di un villaggio perso dai palestinesi magari nel lontano 1948. Nel giorno della Naqba, della catastrofe palestinese, le famiglie sono inviate a sfilare con le chiavi delle loro vecchie abitazioni. L’Autorità palestinese insomma alimenta una narrativa che nega la possibilità di un accordo oggi come domani, praticando il lavaggio del cervello alle generazioni future. “Lo fanno perché hanno mentito alla loro gente per 60 anni.

 

Cosa ci aspettiamo che dicano adesso? ‘Ci siamo sbagliati, non tornerete?’”. Lo stesso Abbas nel corso di un’intervista anni fa a una televisione israeliana negò di volere tornare a Safed dove è nato, spiegando di essersi ormai convertito alla soluzione due popoli-due stati. “Nel giro di poche ore – ricorda Khaled – migliaia di palestinesi scesero per strada a Gaza, in Cisgiordania, in Libano, Giordania e Siria condannando le parole del presidente traditore”. Abbas corse ai ripari spiegando che la sua opinione era strettamente personale e che il diritto al ritorno restava inviolabile. “I palestinesi sono prigionieri della loro stessa retorica: si sono legati le mani da soli con promesse impossibili da mantenere”. Abu Toameh invoca invece “un leader coraggioso che dica apertamente ai profughi che non torneranno in Israele” e immagina una soluzione con tre vie d’uscita. La prima: compensazioni finanziarie per tutti i profughi arabi ed ebrei, stabilite in una conferenza internazionale.

 


Palestinesi durante una protesta contro i soldati israeliani (foto LaPresse)


 

La seconda è il resettlement, il reinsediamento, ovvero chiedere a Libano, Giordania, Arabia saudita e Kuwait di smettere di trattare i palestinesi come cittadini di quarta classe. “Date loro passaporti e lasciateli vivere. I miei zii abitano in Kuwait ormai da 50 anni ma non possono comprarsi casa. Sono musulmani in un paese musulmano e la legge glielo impedisce. Io, il loro nipote, mi sono potuto comprare un appartamento nel quartiere ebraico di Gerusalemme”. Il terzo: quando esisterà uno stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania “potremo invitare i profughi a trasferirsi lì”. L’importante è che i palestinesi smettano di sperare nell’arrivo di un Saladino che metta fine allo Stato ebraico. Un messianismo, aggiunge Abu Toameh, che non alberga negli arabi israeliani, “il nostro problema è un altro: noi lottiamo per l’integrazione”.

 

La comunità araba con il passaporto israeliano non contesta il diritto di Israele a esistere. “A noi servono servizi migliori e leggi contro la discriminazione. Al pari della maggior parte degli ebrei, noi vogliamo vedere la nascita di uno stato palestinese. Ma vogliamo restare qui”. Ci sono almeno due ragioni per non volersene andare. “La prima è che eravamo qua prima di Israele e non vedo perché dovremmo andarcene a Gaza o a Ramallah”. La seconda è che qua abbiamo libertà di movimento, democrazia, uno stato di law and order. “E quando ti svegli la mattina e vedi il mondo arabo intorno a te, ringrazi il cielo di essere capitato con gli ebrei”.

 

Khaled non risparmia critiche neppure ai politici della sua comunità. “Alcuni sono terribili. Alla Knesset ci sono 13 deputati arabi, la metà dei quali fa il suo lavoro rappresentando gli interessi di chi li ha votati. L’altra metà sta invece solo causando danni enormi: hanno dimenticato che li abbiamo votati noi, non gli elettori di Gaza e Cisgiodarnia. In che modo mi aiuta un deputato che si imbarca su una flottiglia per Gaza?”. Abu Toameh non se la prende solo con le loro azioni ma anche “con la loro retorica terribile, che serve solo ad allargare il gap fra ebrei e arabi in Israele”. È proprio grazie alle loro parole, uguali a quelle di Hamas, “che gli israeliani ci vedono come una quinta colonna, un cancro, un nemico dentro casa. E non sto dicendo che sia sbagliato identificarsi con la causa palestinese, ma solo che io non ti ho votato perché tu ti occupi solo di quello”.

 

Errori veniali rispetto a quelli commessi dall’Olp, “che dopo aver destabilizzato la Giordania e il Libano è arrivata in Cisgiordania dove, invece di creare le basi di uno stato, ha solo prodotto corruzione e fatto sparire miliardi di dollari di aiuti internazionali. Questi sono crimini contro il popolo”. Ecco perché secondo Khaled la pace resta un miraggio, un obiettivo orfano sia di una leadership coraggiosa sia di un processo di formazione e di educazione. “Oggi abbiamo l’esatto contrario”. La dirigenza palestinese continua nella sua propaganda mistificatoria. Abbas lancia ciclici appelli alla difesa della moschea di al-Aqsa “e dice che gli ebrei la vogliono distruggere”. Gli uomini di Abbas chiedono la restituzione del 100 per cento dei territori conquistati da Israele nel 1967, conclude Abu Toameh “senza sapere se saranno sostituti al potere da Hamas o dall’Isis, senza rinunciare al diritto al ritorno, senza riconoscere il carattere ebraico di Israele, senza garantire che il nuovo stato non sarà una rampa di lancio per il terrore e senza neppure avere la certezza che i palestinesi accetterebbero un tale accordo”.

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