Il dibattito oltre il dibattito
Trump e Hillary sono i paradossi della libertà, dice Hauerwas
New York. Come tutti quelli che hanno contemplato il progetto americano fin nei suoi abissi esistenziali, Stanley Hauerwas non è particolarmente sorpreso dalla degenerazione del dibattito politico in corso. Il grande teologo americano è preoccupato dall’ascesa di Donald Trump e disgustato dal divario che si è creato fra l’élite liberal e il popolo sofferente, ma non è stupito: “Sono le conseguenze inevitabili di una società costruita su un’idea angusta di libertà, dove il denaro tende a coincidere con la virtù e le identità, che cementano il senso di appartenenza e formano le comunità, non si tramandano di generazione in generazione. Che tutto questo abbia generato un popolo di alienati non è così strano”, dice Hauerwas al Foglio dal suo ufficio della Duke University, dove insegna da una vita. Hauerwas è un rappresentante della cosiddetta “sinistra evangelica”, ma lui preferisce collocarsi, all’interno dell’ampio spettro cristiano, nella “sponda cattolica del protestantesimo”. Significa non credere che la storia cristiana sia iniziata con la riforma.
Scrittore prolifico e mente poliedrica, Hauerwas è stato acclamato dal Time nel 2001 come “miglior teologo americano” e la sua capacità di misurarsi con diversi registri e linguaggi gli permette di essere a suo agio tanto nei consessi eruditi della teologia quanto nel salotto di Oprah. L’intellettuale si è occupato pressoché di qualunque ambito della teologia, concentrandosi in particolare sul rapporto fra cristianesimo e politica, e ricavandone l’idea controintuitiva che l’America, a dispetto delle sue origini puritane e del sentimento religioso apertamente esibito in ogni contesto, non è nella sua essenza un paese cristiano. Al contrario, è “il progetto della modernità”, l’innalzamento dell’uomo su pilastri puramente umani. Cosa c’entra tutto questo con Trump e Hillary? Moltissimo: le origini dell’alienazione del popolo americano, che favorisce il successo dei candidati più odiati di sempre, vanno ricercate, secondo Hauerwas, in una versione moderna e ultrasecolarizzata della libertà, dove questa tende a coincidere con la pura capacità di scegliere.
Hauerwas parte da un’osservazione empirica e personale: “Ho chiesto a tutti quelli che conosco qui in università se votano Trump, e non sono riuscito a trovare una sola persona che voti per lui. Non solo, ma tutti dicono anche che a loro volta non conoscono nessuno che vota per Trump. L’élite accademica non conosce il popolo che vota Trump, non condivide nulla con queste persone, non sa dove abitano, cosa pensano, come vivono, sono due insiemi senza un’area di intersezione. Queste elezioni, io credo, hanno molto a che fare con questa condizione di alienazione, estraneità e confusione che ha radici profonde. Di questo popolo invisibile sappiamo una cosa con certezza: che è arrabbiato. Ma con chi siano arrabbiati non lo sanno nemmeno loro, e così Trump ha assunto un ruolo ‘terapeutico’, nel senso che offre a questi malati di alienazione un nemico da combattere, l’establishment politicamente corretto rappresentato da Hillary”. Terapeutico è un aggettivo ricorrente nelle indagini sociologiche sulle tendenze del popolo americano. Christian Smith, sociologo delle religioni della Notre Dame University, usa l’espressione “deismo moralistico-terapeutico” per descrivere l’esperienza religiosa dei millennial e dei loro fratelli ancora più giovani: cercano la cura per una malattia esistenziale che è difficilissima da diagnosticare. L’analogia con lo scenario politico si costruisce da sé.
Hauerwas sostiene che il disagio della civiltà americana agitato da Trump non si misura con il metro socioeconomico. Non è la povertà della classe operaia bianca che gli ha permesso di mandare gambe all’aria il partito di Abraham Lincoln, ma la sua perdita di identità, dove il fattore economico è una specie di acceleratore della reazione. “I bianchi in America si sono sostenuti seguendo, coscientemente o meno, il mito della riuscita economica. E’ quello il collante della loro identità. Quando si sono trovati impoveriti hanno perso tutto: non hanno una storia condivisa con cui si identificano, e quindi non possono avere il senso del futuro. Non si può tramandare alle nuove generazioni ciò che non si ha. Per gli afroamericani è diverso. Hanno subìto tragedie immani e sono ancora vittime di pregiudizi, ma hanno attraversato insieme, come popolo, la schiavitù, la segregazione, hanno sofferto e si sono battuti per qualcosa. I bianchi, invece, non hanno storia”. E qui sta la pietra d’inciampo. Perché il non avere una storia, il taglio con il passato, è parte integrante del progetto del Nuovo Mondo. Il non avere un’identità, ma poterla scegliere con un atto della volontà, è esso stesso un tratto dell’identità.
Thomas Paine era elettrizzato di fronte all’occasione unica di “rifare il mondo daccapo” e in questa fibrillazione nuovista si è cementata l’idea che Hauerwas riassume così: gli americani “pensano che non debbano avere una storia se non la storia che hanno scelto quando ancora non avevano una storia”. “Questo è ciò che gli americani chiamano libertà: una scelta, una recisione totale determinata con la volontà”, dice il teologo, osservando che con Trump e Hillary la logica della pura scelta mostra la sue conseguenze impreviste: “Siamo talmente liberi che oggi possiamo scegliere fra l’irrazionalità di Trump e l’élite cinica di Clinton: non mi pare una grande libertà”. Hauerwas non crede però che questa elezione avrà l’effetto di scalfire la fiducia che gli americani hanno nella politica – cosa che li distingue dagli europei, che a seconda dei punti di vista sono cinici e realisti – per il semplice fatto che “gli americani non sanno bene di cosa parlano quando dicono ‘democrazia’. Questo è evidentemente il sistema più elitario e classista d’occidente, le istituzioni democratiche dipendono direttamente dall’élite che dominano l’ambito accademico, tecnologico, politico e dell’informazione. Ma noi eravamo così impegnati a costruire il benessere economico e a ripetere quanto eravamo fortunati a vivere nel paese della libertà che non siamo mai riusciti ad ammetterlo”.