E poi tutti (anche gli ecuadoregni) hanno scoperto il vero gioco di Assange
Roma. Lo scandaluccio della connessione internet di Julian Assange, fondatore di Wikileaks rinchiuso da quattro anni nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, mostra meglio di ogni proclama, di ogni mail trafugata e di ogni hackeraggio indebito lo stato dell’organizzazione un tempo paladina della trasparenza e della giustizia internazionale e oggi agente per niente imparziale di interessi particolari. Nel 2012, Assange ha chiesto asilo nell’ambasciata ecuadoregna per sfuggire alla giustizia internazionale che lo accusa, a suo dire ingiustamente, di vari reati. Da lì, in maniera più o meno agevole, ha continuato a gestire la sua organizzazione, rilasciare interviste, intervenire sull’agenda mondiale. Ha goduto della luce riflessa dell’affaire Snowden, poi, negli ultimi mesi, è tornato alla ribalta con la pubblicazione delle mail riservate del Partito democratico americano, in parte prelevate dai server della Democratic National Committee e in parte provenienti dall’account personale di posta di John Podesta, capo della campagna elettorale di Hillary Clinton.
In entrambi i casi, la pubblicazione delle email finora ha fatto più scalpore per la loro provenienza (Wikileaks, ha accusato il governo di Washington, le avrebbe ricevute da hacker al soldo del governo russo) che per il loro contenuto (molto gossip, qualche malevolenza e poco materiale davvero compromettente oltre al solito manovrare della politica), ma ha consentito ad Assange di mantenere una presenza stabile sulle prime pagine dei media occidentali.
La cattività di Assange non ha rallentato il flusso degli scandali e delle rivelazioni, ma da lunedì le comunicazioni del fondatore di Wikileaks hanno iniziato a rarefarsi. La connessione internet dell’ambasciata ha subìto delle limitazioni, e Assange è stato parzialmente tagliato fuori dal mondo, anche se è plausibile immaginare che continui a comunicare tramite cellulari e smartphone. Dopo qualche ora in cui si sono susseguite le ipotesi più svariate (un malfunzionamento? un attacco dei nemici della libertà?), il governo ecuadoregno ha ammesso: siamo stati noi. In un comunicato ufficiale, Quito ha annunciato di aver “esercitato il suo diritto sovrano di restringere l’accesso a parte della sua rete di comunicazioni private” perché in base al “principio di non intervento negli affari interni di altri stati”, l’Ecuador non vuole che le sue strutture siano usate per “interferire nei processi elettorali di altri paesi o intervenire in favore di un particolare candidato”. In pratica, l’Ecuador non vuole essere considerato la base di un’operazione volta a influenzare le elezioni americane gettando discredito su uno dei candidati (Clinton) per favorirne un altro (Trump) su ispirazione di uno stato terzo (la Russia).
Immediatamente, contro l’Ecuador e il suo presidente, Rafael Correa, sono arrivate accuse di viltà e di sottomissione all’odiato potere americano. Wikileaks ha condannato l’avvenuto, e ha ribadito di essere niente più che un tramite: noi ci limitiamo a pubblicare informazioni di rilievo generale, non intendiamo influenzare nessuna elezione. Ma la decisione di un paese non esattamente allineato come l’Ecuador, guidato da un presidente populista e socialista che fa della retorica antiamericana una parte importante del suo repertorio, segna un punto di svolta per Wikileaks e il suo fondatore. L’Ecuador ha deciso di tagliare internet ad Assange (cosa che comunque, come è facile immaginare, non limiterà l’attività di pubblicazione di segreti trafugati) perché perfino a quelle latitudini si è capito ormai che Wikileaks non è più l’organizzazione equanime che castiga i potenti della terra in difesa della trasparenza e del diritto dei cittadini a sapere, osannata come paladina delle libertà contro le angherie dei governi (occidentali) e delle multinazionali (occidentali anch’esse).
Si potrebbe andare oltre, e dire che Wikileaks non è mai stato niente di tutto questo, ma che piuttosto solo adesso ha iniziato a mostrare i suoi veri colori anche agli osservatori più disattenti. Quella di Assange è un’organizzazione politica, con un’agenda ben precisa e tendenzialmente canagliesca, e con sponsor equivoci, come mostrato in decine di inchieste giornalistiche e confermato dai fatti. La retorica della trasparenza è sempre stata un alibi ideologico più che un obiettivo, e gli hackeraggi in America lo dimostrano in maniera evidente. Assange non è mai stato il giudice super partes che mette in mostra i panni sporchi degli altri, è parte del gioco. E’ ora che inizi a essere considerato come tale.
Dalle piazze ai palazzi