Cosa non va nella lotta tra New York e Airbnb
Roma. Andrew Cuomo, governatore dello stato americano di New York, ha una decina di giorni di tempo, fino alla fine del mese, per decidere se porre o meno il suo veto a una legge che metterebbe in pericolo la permanenza di Airbnb – piattaforma online che consente a milioni di persone di affittare stanze o appartamenti per brevi periodi – nella più grande città d’America. Sulla scrivania di Cuomo c’è una legge approvata a giugno dai legislatori locali che commina multe salate (mille dollari, che diventano 5.000 in caso di una seconda infrazione e 7.500 a partire dalla terza) a chiunque usi Airbnb per infrangere le leggi che regolano l’ospitalità turistica nella città. Queste leggi sono particolarmente dure: dal 2010, per lo stato di New York è illegale che un cittadino affitti il proprio appartamento per meno di 30 giorni, secondo la ratio per cui chi affitta un locale per brevi periodi gestisce di fatto un hotel illegale. Questa legge di fatto rende illegale la gran maggioranza degli oltre 40 mila alloggi affittati con Airbnb in città, e per questo, fino a oggi, la norma del 2010 era stata ignorata di fatto, come la stessa Airbnb ha ammesso tempo fa. Oggi invece una sua applicazione effettiva potrebbe significare la fine del business newyorchese della startup di San Francisco.
Posta così, la disfida tra Airbnb e lo stato di New York appare come un classico scontro “tra la gente e il potere”, come ha detto al New York Times Chris Lehane, il capo della public policy di Airbnb: un episodio ricorrente in cui una startup di sharing economy è messa in pericolo da leggi che sembrano scritte sotto dettatura delle lobby, in questo caso quella degli hotel.
Alcune startup “disruptive”, come Uber, davanti agli ostacoli legislativi rispondono aumentando il livello della sfida, forti di un sostegno entusiasta da parte degli utenti, che dopo averlo provato non sono disposti a rinunciare a un servizio migliore di quello che c’era prima. Ma Airbnb ha risposto alla legge newyorchese con il dialogo, promettendo nuove regole interne che limiteranno, per esempio, la pratica diffusa di affitti multipli da parte di un solo affittuario. La ragione, anzitutto, è che non tutti sono disposti a seguire le ardite ma spesso suicide strategie di pr di Uber, ma riguarda anche il fatto che l’entusiasmo nei confronti di Airbnb non è unanime. Insieme ai milioni di utenti e turisti soddisfatti della facilità ed efficienza del servizio, in molte città sono nati gruppi sempre più consistenti di residenti locali che protestano perché Airbnb, a dir loro, starebbe rovinando il loro stile di vita. In città già attraversate da una grave crisi abitativa come New York, San Francisco e Londra, dove i prezzi degli affitti e delle case sono alle stelle e la carenza di abitazioni libere rende il mercato asfittico, Airbnb è spesso accusata di peggiorare la situazione, e di essere un agente di quella tanto odiata “gentrification” contro cui i millennial d’America scendono in piazza in tutte le metropoli. Anziché affittare gli appartamenti, denunciano i residenti, certi proprietari senza scrupoli mettono decine di annunci su Airbnb, limitando la scelta e facendo alzare i prezzi degli affitti. In effetti, secondo il sito Inside Airbnb il 27,5 per cento degli host di Airbnb a New York ha affitti multipli, mentre un’inchiesta del sito FiveThirtyEight (contestata da Airbnb) mostra che circa un terzo dei ricavi della compagnia in America viene da affitti definiti “commerciali”, a lungo termine. Ma né FiveThirtyEight né altre inchieste basate su dati statistici sono riusciti a confermare la percezione anti Airbnb dei residenti, per una ragione di fondo che è piuttosto facile da intuire: la portata di Airbnb non è nemmeno lontanamente abbastanza grande da influire in maniera consistente su un fenomeno di proporzioni mastodontiche quale la crisi abitativa in alcune delle più popolate metropoli del mondo. Airbnb è una fonte di giganteschi problemi per gli albergatori ma, almeno per ora, non lo è per i residenti delle grandi città, che con leggi come quella newyorchese difficilmente vedrebbero risolti i loro problemi.
I conservatori inglesi