“Dopo Mosul, Raqqa”. Ecco l'ultima strategia dell'Obama guerriero
Milano. “Dopo Mosul, Raqqa”, ha detto Hillary Clinton, candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti, durante l’ultimo dibattito elettorale con Donald Trump, mercoledì a Las Vegas. La Clinton conferma una strategia di cui si discute da tempo: secondo dichiarazioni del governo di Washington circolate nelle ultime settimane, l’assalto a Mosul, capitale dello Stato islamico in Iraq, e a Raqqa, capitale dello Stato islamico in Siria, dovrebbe essere quasi simultaneo, per indebolire in modo contestuale il gruppo di al Baghdadi nelle sue due roccaforti. L’operazione di Mosul è partita lunedì, il primo ministro iracheno, Haider al Abadi, dice che procede più rapidamente del previsto, con le forze irachene e curde che sono entrate a Bartella, un villaggio cristiano abbandonato a venti chilometri da Mosul e che ora puntano sulla città.
Le forze governative durante l'assalto a Mosul (foto LaPresse)
Per quanto riguarda Raqqa invece ci sono stati molti incontri nelle ultime settimane tra gli americani e la coalizione anti Stato islamico, compresi la Turchia, i curdi siriani e il Regno Unito, per trovare un accordo per l’offensiva. A Raqqa, città petrolifera in cui abitano circa 200 mila persone, ci sono secondo le stime cinquemila combattenti dello Stato islamico, ma il problema non è tanto la conquista della città, quanto come e con chi farlo. Come dice un esperto dell’International Crisis Group, Noah Bonsey, Raqqa è cruciale per sconfiggere militarmente lo Stato islamico, ma “ognuno ha un interesse geopolitico da difendere, e non è mai comune”.
In più in Siria, gli Stati Uniti hanno un controllo inferiore del territorio rispetto all’Iraq.Da settimane le forze aeree della coalizione americana hanno colpito obiettivi nella provincia di Deir el Zor, controllata dallo Stato islamico, tra Raqqa e il confine iracheno: i blitz servono per tagliare il collegamento tra le due capitali dello Stato islamico, in modo da evitare che i combattenti in fuga da Mosul rafforzino il fronte in Siria (secondo il Telegraph stanno già scappando in molti, puntano verso la roccaforte siriana, per questo la contestualità delle due operazioni è strategicamente rilevante). Il problema è costituito dalle forze di terra e dall’eterna lotta tra la Turchia e i curdi siriani. Fonti vicine ai curdi ripetono ai media internazionali che nessuna forza araba o curda accetterà mai la presenza della Turchia in un’operazione in Siria.
I curdi siriani costituiscono la spina dorsale della coalizione Sdf, Syrian Democratic Forces, un gruppo composto da arabi e curdi che gli americani armano e addestrano da un anno. L’Sdf ha ripreso terreno allo Stato islamico nel nord della Siria e nel frattempo lavora a uno stato semiautonomo curdo lungo il confine turco. Molti esperti segnalano non soltanto che la frattura tra curdi e turchi non è sanabile – ed è debilitante per la tenuta dei “boots on the ground” contro Raqqa – ma anche che la presenza dei primi ha spinto molti arabi a unirsi allo Stato islamico per proteggersi dalle forze curde.
Le forze sul campo sono da sempre il problema principale della strategia americana in Siria e in Iraq (a Mosul, con le brigate sciite, ci sono ambiguità analoghe) e il motivo per cui le operazioni sono andate a rilento – al netto della collaborazione sperata con la Russia, che è in questo momento impegnata ad Aleppo e non riesce nemmeno a fingere di voler organizzare una missione su Raqqa. Ma è chiaro che Barack Obama vuole ottenere risultati tangibili entro gennaio, per poter dire di aver inferto colpi definitivi allo Stato islamico come aveva promesso, confermando allo stesso tempo una legge delle relazioni internazionali pressoché infallibile: la debolezza porta alle aggressioni che portano alla guerra.