Ecco come Obama ha perso le Filippine
Roma. Accordi per tredici miliardi e mezzo di dollari. Tanto è valsa la visita del presidente filippino Rodrigo Duterte a Pechino, che nello storico viaggio è stato accompagnato da una delegazione record composta da quattrocento businessman. A fare i titoli dei giornali di venerdì, però, è stata la frase pronunciata da Duterte giovedì durante un forum economico nella capitale cinese: “Annuncio la mia separazione dagli Stati Uniti. Sia militarmente, sia economicamente – forse non socialmente. L’America ha perso”. E poi ha aggiunto, davanti alla platea cinese: “Ci siamo riallineati alla vostra corrente ideologica. Forse andrò anche in Russia, a parlare con il presidente Vladimir Putin, a dirgli che da oggi siamo noi tre contro il mondo intero: Cina, Filippine e Russia. E’ l’unico modo”. Igor Khovaev, ambasciatore russo nelle Filippine, ha risposto ai microfoni di GMA News: “Il presidente Duterte faccia la sua lista dei desideri”.
Dopo tre mesi di presidenza Duterte, Barack Obama ha così definitivamente perso le Filippine. Manila era la più antica alleata di Washington in Asia, una ex colonia americana accompagnata per mano verso l’indipendenza dopo la Seconda guerra mondiale. Tutti i presidenti filippini della storia hanno avuto rapporti stretti con la Casa Bianca. Secondo il dipartimento di stato americano, lo scambio commerciale tra Stati Uniti e Filippine ogni anno raggiunge i 25 miliardi di dollari, ma ci sono anche 150 milioni di dollari l’anno che l’America invia in aiuti economici e i 4,7 miliardi di dollari di investimenti di imprese statunitensi su territorio filippino. Sin dall’annuncio della strategia asiatica americana sancita dal noto “pivot to Asia” (“Il futuro della politica sarà deciso in Asia, non in Afghanistan o in Iraq, e gli Stati Uniti saranno al centro dell’azione”, scriveva nel 2011 su Foreign Policy l’allora segretario di stato americano Hillary Clinton) gli equilibri del mondo sono cambiati. Analizzando i discorsi ufficiali, le visite di stato degli alleati, sembra di capire che il pivot americano comprendesse certo le Filippine, ma l’alleanza strategica con Manila era un fatto assodato, dato per scontato, difficile immaginare un cambio di rotta così radicale dopo la presidenza di Benigno Aquino III. Un errore di valutazione, forse, iniziato con la candidatura alla presidenza dell’ex sindaco di Davao Rodrigo Duterte.
L’unica visita di stato effettuata da Barack Obama nelle Filippine da presidente risale al 2014. In quella due giorni, Obama e Aquino rinsaldarono la collaborazione per la Difesa, un patto strategico decennale che molto probabilmente sarà stralciato a breve da Duterte e che all’epoca veniva rilanciato sui media come fondamentale per il ribilanciamento asiatico in America. Spesso alcune delle dichiarazioni più forti di Duterte vengono smentite poche ore dopo, da lui stesso o dai suoi più stretti collaboratori. E anche sull’alleanza militare con gli Stati Uniti il presidente filippino si è contraddetto varie volte. Ma la visita in Cina – il suo primo viaggio di stato ufficiale – e la calorosa accoglienza del presidente cinese Xi Jinping potrebbero aver messo un punto fermo sulla rotta della politica estera di Manila. Duterte, inoltre, ha un nonno nato e cresciuto in Cina, e secondo Forbes su dieci miliardari filippini, sette sono di nazionalità mista filippino-cinesi e controllano gran parte del commercio al dettaglio e dei centri commerciali di Manila. Uno di loro, James Dy, ha detto al South China Morning Post che Filippine e Cina hanno tante cose in comune, e che Pechino potrebbe contribuire a costruire le infrastrutture di cui le Filippine hanno bisogno. L’unico problema ancora da risolvere è quello sul mar Cinese meridionale – la sentenza arbitrale della Corte dell’Aja che aveva dato ragione alle Filippine sull’aggressività cinese. Washington aveva sventolato il diritto internazionale, ma Duterte aveva fatto spallucce. Ora può trattare direttamente con Xi Jinping.
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