Come funzionerà in Spagna la “grande coalizione di fatto”
Roma. Mariano Rajoy, ancora per qualche giorno primo ministro facente funzioni della Spagna e leader del Partito popolare (Pp), ha espresso parole morigerate per la decisione che da oltre trecento giorni dilania l’opposizione del Partito socialista (Psoe): “Molto ragionevole”, l’ha definita su Twitter, come se fosse la scelta più naturale del mondo, e non il dilemma che ha diviso il partito storico della sinistra spagnola, affossato il suo leader e generato una crisi d’identità senza precedenti. La scelta, ovviamente, è quella di consentire un governo di minoranza guidato da Rajoy tramite un’astensione in sede di voto di fiducia, e domenica è stata approvata, 139 a 96, dalla maggioranza dei rappresentanti del comitato federale del Partito socialista. Dopo uno stallo durato dieci mesi, la strada per formare un governo è in discesa, ma ripida: c’è tempo fino alla fine del mese per evitare nuove elezioni. Le consultazioni con re Felipe VI, il capo dello stato, sono iniziate ieri e si chiuderanno oggi. Il primo voto di fiducia per Rajoy sarà già mercoledì o giovedì. A questa prima votazione, per la quale è richiesta la maggioranza assoluta, Rajoy non passerà e il Psoe ha già annunciato che voterà no. Per legge, bisogna far passare almeno 48 ore tra la prima e la seconda votazione, nella quale per formare un governo basta che siano più i voti favorevoli di quelli contrari. Sarà qui che i socialisti si asterranno, rendendo i sì del Pp e dei centristi di Ciudadanos sufficienti per far nascere la legislatura negli ultimissimi giorni utili.
Politicamente, il sì deciso domenica riporta i socialisti indietro di dieci mesi. Quello stesso sì avrebbero potuto esprimerlo dopo le elezioni del dicembre 2015, risparmiando alla Spagna trecento giorni senza governo e a se stessi il crollo rovinoso del loro leader, Pedro Sánchez, le divisioni interne (in questi giorni l’ala catalana del partito è sul piede di guerra) e polemiche i cui strascichi si ripercuoteranno duramente anche a livello elettorale, senza ottenere nulla in cambio. Chi c’ha guadagnato è invece Rajoy, che vede realizzarsi così l’obiettivo politico espresso in questi mesi (l’obiettivo massimo sarebbe tornare al voto oggi stesso e ottenere il risultato che i sondaggi attribuiscono al momento al Pp: oltre il 37 per cento; ma Rajoy non vuole sfidare la fortuna fino a questo punto): un’unione di tutti i partiti costituzionali contro il populismo di Podemos. I socialisti non sono d’accordo, promettono un’opposizione dura e tenace non appena sarà finito il voto di fiducia e alla riunione di domenica – burrascosa ma non sanguinaria come quella di inizio mese che ha visto le dimissioni del segretario Sánchez – si sono ripromessi di usare la propria influenza sul prossimo governo di minoranza per modificare o cancellare alcune delle odiate riforme d’austerity e di flessibilità dell’economia di Rajoy.
Il premier in pectore è accondiscendente, ieri si è detto disposto a valutare un programma di più ampio consenso, ma presto anche i socialisti di migliori speranze scopriranno che la via della ragionevolezza è irta di decisioni politicamente costose, e che quella presa domenica è solo la prima. Il nuovo governo di minoranza avrà bisogno del sostegno socialista per dare il via libera a ogni singola misura, a partire dalla nuova legge Finanziaria, che va approvata entro la fine dell’anno e in cui il governo dovrà inserire pesanti misure di contenimento del deficit per schivare la multa miliardaria minacciata dall’Unione europea. I socialisti otterranno dei risultati nella lotta anticorruzione e sulla riforma della Costituzione, ma in politica economica sarà ancora Rajoy a dettare la linea, perché la sua è l’unica che funziona, e i socialisti, se non vorranno di nuovo mandare tutto all’aria, dovranno apprendere la lezione che gran parte delle forze progressiste europee ha già imparato a proprie spese: di questi tempi, la sinistra funziona solo se accetta di fare la destra.