Solo un Iraq più forte ridarà stabilità all'intero medio oriente
L’esercito iracheno – sostenuto dalla coalizione internazionale – sta sferrando in questi giorni l’attacco finale a Mosul. Lì si gioca la partita decisiva per assestare un colpo quasi fatale a Daesh, il quale si vedrebbe quasi privato di quel controllo territoriale politico e istituzionale che gli aveva permesso di autoproclamarsi stato. Non sarà facile però portare a termine l’operazione, poiché i suoi uomini fanno uso, con la consueta spietatezza, anche di scudi umani scelti tra i civili inermi e potrebbero poi passare a una lunga e cruenta fase di guerriglia.
Cerchiamo però di pensare già al dopo: una volta che Mosul sarà tornata sotto il controllo di Baghdad, l’errore più grave sarebbe pensare che tutto sia a posto. Serve invece già da ora una “exit strategy” per la prolungata fase di instabilità di cui è prigioniero l’Iraq da ormai troppo tempo. La chiave per la stabilità nell’area è ancora una volta la storica Mesopotamia. Un Iraq pacificato ma ancora troppo debole e in balìa di nuove minacce estremiste non sarà sufficiente per ridare equilibrio alla regione e consentire di riflesso la pacificazione in Siria.
Nell’immediato bisognerà anzitutto affrontare l’ennesima emergenza umanitaria, rappresentata da migliaia di rifugiati costretti a spargersi nelle zone settentrionali del paese. Si ritiene che entro il mese di ottobre circa 200 mila persone avranno abbandonato Mosul, la seconda città più popolosa del paese. Un numero che si aggiungerà agli oltre tre milioni di iracheni che vivono già da sfollati, da quando nel 2014 lo Stato islamico si è innestato nella parte centro-settentrionale del paese inducendo molte persone alla fuga.
La Giordania accoglie la maggior parte di questi rifugiati, ma si ritiene che circa 90 mila confluiranno addirittura in Siria per effetto dell’offensiva contro Mosul. Un tessuto sociale nuovamente distrutto, che andrà presto rigenerato e ricostruito se si vorrà dare una prospettiva di sviluppo alla popolazione irachena, precondizione per rompere il circolo vizioso di instabilità e violenza che non accenna a interrompersi. Oltre all’emergenza umanitaria, entrerà poi in gioco la politica. Sarà infatti cruciale elaborare una strategia di medio-lungo periodo che possa restituire stabilità alla regione dopo quindici anni di sanguinosi conflitti. E’ dalla Mesopotamia che bisogna ripartire e dall’intervento americano che nel 2003 rovesciò il regime di Saddam Hussein.
Come sarà l’Iraq del futuro? Pensiamo che la soluzione più appropriata sia quella di contribuire a stabilire una confederazione, in cui tutte le componenti etnico-religiose vengano rispettate. Serve garantire autonomia alla componente sciita, sunnita e curda, ma anche tutelare le minoranze cristiane e yazide, sgombrando una volta per tutte il campo da ambiguità che non hanno fatto altro che esacerbare gli odi e le rivendicazioni settarie negli ultimi anni. Un processo che comporterà determinate e fatalmente sanguinose ingerenze delle potenze confinanti.
Da un lato, la Turchia vorrà essere protagonista oltre che per lo storico confronto con la popolazione curda, per non dimenticare che Mosul faceva parte dell’Impero ottomano prima di essere stata inserita con un tratto di righello nel nuovo Iraq dagli accordi Sykes-Picot. Dall’altro lato, l’Iran non accetterà più un Iraq dominato dalla minoranza sunnita, desideroso di aumentare l’influenza nell’area e memore del conflitto che vide confrontati i due paesi nel corso degli anni Ottanta. Di riflesso, questo aiuterà anche a stabilizzare la Siria, impedendo che dai labili confini iracheni confluiscano nuovi gruppi di estremisti. Due paesi più forti potranno rinforzare reciprocamente i rispettivi confini, ponendo finalmente fine al dramma che stanno vivendo le popolazioni di Aleppo e Mosul.
Il ruolo fondamentale di Mosca e Ankara
Ma non dimentichiamo i due principali attori esterni che stanno avendo una grande influenza in questa partita: Russia e Turchia. Le ambizioni di Mosca, l’attore più attivo in questo momento, andrebbero da una parte assecondate e dall’altra limitate. L’occidente dovrebbe ormai accettare (nonostante i parecchi mal di testa causati ultimamente…) che con Putin bisognerà fare i conti ancora per molto tempo. La Russia è un partner fondamentale per la gestione condivisa dell’ordine e della sicurezza nella regione mediorientale e in quella mediterranea. Dall’altra parte, però, la latente vocazione imperialista dell’orso russo si sta ripresentando in maniera evidente, e fastidiosa per Unione europea e Nato, che stanno subendo ingerenze e provocazioni da parte di Mosca.
La riunione di questa settimana dei ministri della Difesa della Nato ha discusso di aumentare la presenza dell’Alleanza nel mar Nero, dovendo muoversi su un filo sottile che rappresenta la relazione con la Russia. Come fare per trovare un equilibrio con Putin, inducendolo alla ragione e trasformandolo in un interlocutore affidabile e utile per ottenere la tanto agognata stabilità? Un’Unione europea meno divisa e debole sarebbe la risposta migliore per arginare le azioni russe che stanno passando il segno. Al momento, una Ue più forte sembra una chimera, ma bisognerebbe cogliere l’opportunità dei 60 anni dalla firma del Trattato di Roma per rilanciarne in maniera decisa il ruolo di attore fondamentale non solo a livello economico e burocratico, ma soprattutto geopolitico.
E poi c’è la Turchia: un altro partner instabile che andrà riportato alla ragione. Ankara dovrà accettare di riconoscere un certo grado di autonomia alla minoranza curda se, come contropartita, vorrà ottenere il riconoscimento di potenza regionale e guadagnare anche un inevitabile grado di compiacenza dell’occidente nei confronti della stretta autoritaria compiuta da Erdogan negli ultimi mesi dopo il fallito golpe.
Il pulsante di avvio di questo processo dovrà essere premuto dal nuovo presidente degli Stati Uniti. Chi abiterà la Casa Bianca da gennaio dovrà partire da qui per impostare la sua agenda di politica estera. Non si tratta di imbracciare nuovamente le armi, né di “esportare democrazia” come si faceva una volta con risultati catastrofici. Si tratta al contrario di avere una visione realista e lungimirante, che rispetti le altre potenze in gioco e che abbia come stella polare la ricerca della stabilità in medio oriente. Sarebbe alquanto sciocco e imprudente ritirarsi in un isolazionismo dorato che darebbe la stura a Putin per allargare il proprio spazio vitale arrivando a minacciare l’intera Europa orientale. Sarebbe altrettanto irresponsabile alzare il livello dello scontro quando invece serve la politica più delle armi, ora più che mai, per riportare ordine in Iraq e Siria.