Sul convoglio con i soldati
Che fare di quelli che ti vengono incontro mentre avanzi verso Mosul?
Dal nostro inviato nel nord dell’Iraq. Quando le teste di cuoio entrano in una banca dove i rapinatori hanno preso i clienti in ostaggio, seguono un protocollo cauto e trattengono tutti sul posto fino a quando non hanno capito chi sono i rapinatori e chi gli ostaggi. Il problema nell’offensiva per Mosul è lo stesso, ma moltiplicato per il milione di civili che secondo le stime è ancora nella città. Andiamo con un convoglio dell’esercito iracheno che approccia con diffidenza la fascia di villaggi a una trentina di chilometri a sud di Mosul che ancora è contesa. Il convoglio è aperto da un bulldozer corazzato con una pala d’acciaio in grado di fare da schermo alle esplosioni minori e da un Humvee, un blindato, con a bordo un team Eod – specializzato nel disinnescare le trappole esplosive. In coda ci sono tre camion portacontainer carichi di scatole di aiuti, nel mezzo una decina di autoblindo con mitragliatrici pesanti. Il messaggio è: se riusciamo ad arrivare ai villaggi e non succede nulla, quindi se non c’è un contrattacco dell’Isis o se gli estremisti non tendono un’imboscata con la loro tattica preferita (sbucare alle spalle dai tunnel costruiti in questi due anni di dominio), allora consegneremo gli aiuti a chi è rimasto in mezzo alla linea del fuoco. Il convoglio si arresta due volte per fare brillare due ordigni piazzati a lato della strada: la squadra di punta fa fermare il resto del convoglio duecento metri più indietro e fa esplodere la mina, mentre tutti si riparano dietro le corazze dei blindati. In pratica si va a passo d’uomo sotto un cielo coperto dai fumi dei pozzi di greggio dati alle fiamme dallo Stato islamico, a volte anche più lenti, quando il bulldozer in avanscoperta decide che è troppo rischioso stare sulla strada principale e crea una seconda strada nei campi a lato, seguìto piano da tutti gli altri. Le mine sono dappertutto, i soldati iracheni chiedono in prestito lo zoom della macchina fotografica per inquadrarle meglio, tra le pietre e i cespugli bassi. Nota interessante: di solito i convogli militari “soltanto di combattimento” alzano ogni genere di bandiere sciite, con i ritratti dell’imam Ali e dell’ayatollah al Sistani, ma in questo caso il convoglio ha un ruolo misto, sta andando verso villaggi sunniti e le bandiere non ci sono.
L’arrivo fa pensare a mille altri cambi di mano avvenuti nella storia. I bambini salutano e ballano, i vecchi stringono le mani, la folla fa ala e le donne dietro l’edificio principale cucinano un pasto rituale su grandi piatti di metallo, da mangiare con le mani, anche se siamo quasi al tramonto e il piano è lasciare la zona prima del tramonto. Difficile non pensare che per due anni e mezzo in queste strade hanno gridato “baqiya!”, resterà per sempre!, quando gli uomini armati gridavano: Dawla al islamiyah! Lo Stato islamico! Tanto che se ci si allontana di poco i soldati vanno in corto circuito, alzano i fucili, gridano che c’è il pericolo che i nemici spuntino dall’angolo da un minuto all’altro. I militari non si fanno illusioni: oggi la gente festeggia l’arrivo dei camion, ieri chinava il capo davanti all’Isis e lo celebrava, domani potrebbe succedere di nuovo, questa festa pare il bersaglio ideale per un attacco: traditori che applaudono il nemico sciita. Poco a nord di qui, secondo l’Onu, il gruppo estremista ha trucidato più di 200 persone per dare un segnale a chi è troppo entusiasta del regime change.
Il problema è che fare di tutta questa popolazione mentre si avanza verso Mosul, che è ancora 30 chilometri più a nord, una lunghezza equivalente quasi a un’intera Striscia di Gaza. Chi sono i rapinatori e chi gli ostaggi? Evacuare tutti? Lasciarli dove sono con il rischio che fra loro si nascondano cellule dormienti? Secondo testimoni diretti sentiti dal Foglio nel campo di Qayyarah, fra le tende dell’Onu, già sono cominciati gli arresti e gli interrogatori e profughi con la testa incappucciata sono stati portati via.