Sostenitori di Trump (foto LaPresse)

Nell'ultimo scontro fra Trump e Hillary il legal drama prevale

Era inevitabile che questa campagna elettorale finisse con un impuro viluppo di inchieste e procuratori, di brogliacci e di leak, una faccenda forense e inquisitoria, una casa dei fantasmi giudiziari dove aleggia lo spirito di J. Edgar Hoover.

New York. Era inevitabile che questa campagna elettorale finisse con un impuro viluppo di inchieste e procuratori, di brogliacci e di leak, una faccenda forense e inquisitoria, una casa dei fantasmi giudiziari dove aleggia lo spirito di J. Edgar Hoover. Il legal drama ha finito per soppiantare anche il plot a sfondo sessuale. “Lock her up” e “Hillary for prison” sono stati a lungo temi dominanti, ma il circo politico-giudiziario è bipartisan: per Donald Trump caldeggia inchieste sui legami con Vladimir Putin e certe banche russe, senza distogliere lo sguardo dalle sue acrobazie fiscali.

 

Il New York Times sostiene che per non pagare tasse i suoi avvocati hanno deformato alcuni cavilli vantaggiosi al punto da sfigurare completamente le leggi. Dall’altra parte della barricata si è scatenata una guerra senza precedenti contro il capo dell’Fbi, James Comey, colpevole di aver politicizzato il suo ruolo annunciando la comparsa di nuove email – dal contenuto ancora ignoto – che riguardano Hillary. Il dipartimento di Giustizia avrebbe potuto impedire a Comey di riferire al Congresso dell’inchiesta in corso, ma non lo ha fatto. Quello che ha fatto è affidare l’indagine al viceprocuratore generale Peter Kadzik, amico della famiglia Clinton che il manager della campagna John Podesta ha mostrato di apprezzare: “Mi ha tenuto fuori di prigione”, ha scritto in una email trafugata da Wikileaks. Il dipartimento di Giustizia sta dedicando “tutte le energie di cui c’è bisogno” per analizzare in tempi brevi le email trovate in un computer condiviso da Anthony Weiner e Huma Abedin, e i sostenitori di Trump pregano che fra quei 650 mila messaggi ci sia qualcosa di inedito e classificato che possa provare in modo incontrovertibile le menzogne della candidata democratica.

 

Il ritrovamento di una pistola fumante è l’unica condizione per cui la “october surprise” può avere un impatto significativo oltre ai pochissimi punti percentuali che ha fatto perdere a Hillary. In questa guerra di avvocati e procuratori, dove l’inchiesta ha sostituito il comizio, i democratici lamentano la poca solerzia degli inquirenti nell’indagare i legami di Trump con il Cremlino. Su Slate Franklin Foer ha scritto di un rapporto sospetto fra gli uomini del candidato repubblicano e una banca russa; David Corn, del magazine di ultrasinistra Mother Jones, scrive che per anni i funzionari russi hanno tentato di avvicinare e assoldare Trump.

 

Attraverso fonti interne all’Fbi, il New York Times ha ricostruito la sostanziale inconsistenza di quel filone: “Nessuna delle indagini fin qui ha trovato un collegamento definitivo o diretto fra Trump e il governo russo”. Anche l’attacco degli hacker russi ai server del Partito democratico, dicono le fonti, era fatto per disturbare il processo elettorale americano più che per magnificare il candidato repubblicano. Chi si straccia le vesti perché l’Fbi non ha parlato dell’inchiesta sull’asse Trump-Putin deve sapere che forse è perché è poco più o poco meno di una suggestione, benché politicamente sensata. L’ultima suggestione, invero agghiacciante e iperbolica, è che il Cremlino stia cercando di manovrare Trump ricattandolo con un sex tape girato durante uno dei suoi soggiorni moscoviti.