Album di famiglia
Esiste ancora l'alternativa nonviolenta curda alla sfida militarista di Erdogan?
L’oltranzismo repressivo di Recep Tayyip Erdogan è al di là del giudizio politico e rinvia alla psicopatologia del potere. Che Erdogan abbia un gran talento politico e un forte carisma, espressioni che ormai designano soltanto la capacità di somigliare al proprio pubblico e farlo assomigliare a sé, è indubbio, e non contraddice la prima diagnosi. L’oltranzismo repressivo di Erdogan, nel momento stesso in cui si esprime con più sicurezza e senza immediati ostacoli effettivi, ricorda quello di uomini capaci di durare a lungo da dittatori prima di rovinare, da Gheddafi a Saddam. Certo, la Turchia è altro paese dalla Libia e anche dall’Iraq, ma l’ubriachezza del potere è uguale a se stessa. Occorre invece interrogarsi sui bersagli principali, oltre alla costellazione “guleniana”, dell’ossessione repressiva di Erdogan, i movimenti politici e militari che rappresentano una larga parte della popolazione curda di Turchia, soprattutto il Partito dei lavoratori Pkk, che conduce da oltre trent’anni una lotta armata contro il regime turco, e il partito curdo interetnico Hdp, che ha scelto la via democratica, è riuscito ripetutamente a entrare nel Parlamento turco, superando lo sbarramento monstre del 10 per cento, e ha tuttora 59 parlamentari.
Erdogan (e già i suoi predecessori, e il kemalismo fu a sua volta drasticamente anticurdo) accusa il Pkk di essere un’organizzazione terrorista, ed è riuscito a lungo a far aderire a questa accusa l’Unione europea e gli Stati Uniti. Erdogan accusa anche l’Hdp, Partito democratico dei popoli, di essere un partito falsamente democratico e parlamentare e di fornire in realtà una copertura legalitaria al Pkk, dunque di essere un fiancheggiatore del terrorismo. L’uno e l’altro, Pkk e Hdp, si trovano ad affrontare un problema drammatico e ricorrente nelle situazioni di latente guerra civile, quando una forte minoranza nazionale e culturale discriminata e apertamente perseguitata deve cercare una strada al riconoscimento dei propri diritti. La Turchia ha fra i 20 e i 25 milioni di curdi, e un radicamento territoriale che ne fa la maggioranza nel sud-est dell’Anatolia. Il regime turco non sa concepire se non la cancellazione dell’identità curda e la sua forzata assimilazione all’identità turca, in una stagione in cui quest’ultima è esaltata a dismisura. La pretesa di fare dell’Hdp una facciata di comodo del Pkk è fondata? No. O piuttosto, no e sì, se si accetta, com’è necessario, di interrogarsi complementarmente anche sul Pkk. La pretesa di fare del Pkk un’organizzazione terroristica è fondata? Sì, o piuttosto sì e no. I legami, anche parentali, fra dirigenti dell’Hdp e del Pkk esistono davvero, ma non sono l’elemento decisivo. Decisivo è il fatto che l’apparato e la base elettorale curda dell’Hdp a Dyarbakir e nel resto del sud-est turco non accetterebbero mai di dissociarsi e tanto meno di denunciare la lotta armata condotta dal Pkk.
Ai suoi dirigenti combattenti, cresciuti e invecchiati nella persecuzione e nella guerra, un gran numero di curdi di tutte le età, e soprattutto giovani, non toglierebbe la propria ammirazione e il proprio sostegno senza sentirvi un tradimento. Contemporaneamente, un gran numero di curdi e una gran parte della dirigenza dell’Hdp vede nella partecipazione democratica una scelta alternativa a quella della lotta armata, e ha sperato che la propria affermazione parlamentare rafforzasse quella scelta agli occhi degli stessi veterani del Pkk. Dunque un’ambiguità c’è, un album di famiglia, un’acqua comune ai combattenti e agli adepti della via parlamentare: vecchia questione, qui tanto più difficilmente risolvibile nel senso di una scelta nonviolenta perché il suo nemico, il regime turco, sceglie senza esitazione e senza limitazione la guerra. C’era stata, a giugno del 2015, un’elezione in cui l’Hdp aveva avuto un grande successo, entrando in Parlamento con quasi il 13 per cento dei voti, diventando il terzo partito del paese dopo l’Akp di Erdogan e il kemalista Chp, il Partito repubblicano del popolo, e soprattutto col suo successo aveva tagliato la strada alla marcia presidenzialista, e sultanista, di Erdogan.
Quest’ultimo aveva giocato d’azzardo la carta di nuove elezioni anticipate, e a novembre del 2015 il risultato gli aveva dato ragione, benché non abbastanza. L’Hdp aveva confermato la propria consistente presenza parlamentare, del resto rafforzata dall’amministrazione delle principali città a maggioranza curda del paese, quelle i cui sindaci e sindache vengono incarcerati in questi giorni. Ma al momento delle elezioni la partita vera era stata già giocata. Il governo turco aveva rotto di fatto la tregua delle armi destinata ufficialmente a raggiungere un accordo con l’opposizione curda e col suo stesso capo, lui sì davvero carismatico, Abdullah “Apo” Ocalan, recluso in un’isola penitenziaria. Qualunque cosa si pensi del suo contenuto ideologico, la conversione politica e umana di Ocalan nei lunghi anni del carcere è sicuramente sincera. Al contrario, è almeno improbabile che sia stato sincero l’animo con cui il potere turco ha condotto il negoziato di fatto con lui e l’opposizione curda. Alla vigilia delle elezioni anticipate in cui si giocava una partita così decisiva un attentato micidiale fece strage di giovani militanti curdi a Suruc. Il Pkk reagì dichiarando rotta la tregua e attuando a sua volta attacchi a militari e polizia turchi. In un breve giro di tempo si scatenò una vera guerra fra i partigiani del Pkk e l’esercito turco, la cui aviazione colpiva quotidianamente le basi del Pkk nella montagna del Kurdistan iracheno, e una guerriglia civile nelle città curde, bombardate e sottoposte a un frequente coprifuoco. La rapidità e la risolutezza con cui il Pkk ridiede la parola alle armi va messa in causa. Fu il riflesso pressoché condizionato di una dirigenza di combattenti veterani incapaci di pensare in termini diversi da quelli dello scontro armato, o fu anche il calcolo di una dirigenza politica ostile al compromesso parlamentare e preoccupata di vedersi erodere la propria egemonia epica dall’avanzata laica e democratica del partito di Demirtas? E’ probabile che le due motivazioni si siano sovrapposte e mescolate. Ieri, con l’arresto dei due copresidenti dell’Hdp e dei parlamentari – e prima era venuta la cancellazione “parlamentare” dell’immunità ai deputati dell’Hdp, e la sequela di parossistiche misure repressive del governo turco – la scelta “militarista” di Erdogan è culminata.
Quando lo scontro è così frontale agitare una bandiera bianca appare, agli stessi che sono abbastanza lungimiranti da auspicare la nonviolenza, come un segno di resa e di viltà. Per giunta altre guerre premono tutto attorno, e il Pkk, lungi dall’essere messo nell’angolo per una sua presunta ottusità militarista, ha conquistato un ruolo decisivo nella Siria curda – il Kurdistan occidentale, Rojava – dove il partito dell’Unione democratica, il Pyd, gli è legato a filo doppio, ma ai turchi è molto più difficile farlo passare per “terrorista” presso alleati, americani in testa, che contano sui suoi combattenti per sgomberare Raqqa. E anche nel Kurdistan iracheno, dove alle basi delle montagne Qandil dell’esilio il Pkk ha aggiunto una presenza radicata nel Sinjar-Shingal, il monte sacro agli yazidi, che ne sono stati difesi e hanno per il Pkk una devozione, quando non una adesione militante. La nonviolenza è una scelta trascurata quando le cose sono più o meno pacifiche, necessaria quando il gioco si fa duro, quasi impossibile e rimpianta quando si fa troppo duro. Ora i dirigenti curdi di Turchia, Hdp o Pkk – ma ci sono altre formazioni e altre personalità, e il mondo curdo è altrettanto e più diviso di tutti gli altri, nonostante il cemento della nazione negata – si trovano di fronte a un dilemma terribile: il gioco in cui sono incappati è duro, o troppo duro?