La corsa all'indietro degli anti Brexit è piena di ostacoli (e minacce)
Milano. Nell’Inghilterra alle prese con la Brexit la confusione si mischia al panico, con effetti non proprio rassicuranti. La decisione dell’Alta corte inglese di dare al Parlamento il diritto di votare sull’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che apre ufficialmente il negoziato di uscita del Regno Unito dall’Unione europea, è stata interpretata come una via di sopravvivenza da chi si oppone alla Brexit e come una violazione della democrazia popolare da chi invece la Brexit la desidera, eccome. Ma i confini tra i due mondi non sono così netti. Stephen Phillips, parlamentare conservatore pro Brexit, si è dimesso con effetto immediato venerdì perché il premier, Theresa May, farà ricorso alla Corte suprema e di fatto vuole impedire al Parlamento di intervenire prima dell’attivazione dell’articolo 50, prevista per marzo. Perché un deputato pro Brexit dovrebbe dimettersi a causa della resistenza contro una decisione che rischia di allontanare la Brexit?
Perché Phillips vuole che il Regno Unito resti all’interno del mercato unico, ipotesi che nella prospettiva del governo potrebbe non essere tra le favorite. Tutto precipita sempre sullo stesso punto: si può digerire il voto referendario, sostengono i meno radicali e nostalgici tra chi ha votato per il “remain”, nel momento in cui la forma che prenderà la Brexit è discutibile e condivisa. Il popolo ha votato per uscire, ma non sulle modalità del divorzio, che dovrebbero essere stabilite da un dialogo tra le istituzioni e il governo. Naturalmente la proposta suona come una minaccia per i falchi della Brexit: volete levarci il nostro bottino. I tabloid a favore dell’uscita dall’Ue si sono scatenati: i tre giudici della Corte (che hanno votato unanimi) sono definiti “nemici del popolo” dal Daily Mail; il Sun sottolinea il “tradimento di 17 milioni di inglesi”; il Daily Express invita a “combattere combattere combattere” contro questa violazione giudiziaria. Il senso è chiaro: non provate a mettere le zampe, voi anti Brexit, sul nostro più grande successo, sulla nostra più grande ambizione.
Se lo fate, dimostrate che abbiamo ragione noi: il distacco tra l’establishment e il popolo è incolmabile, e voi non sapete ridurlo se non mettendo a tacere la voce popolare. Il Financial Times, notoriamente contro la Brexit, mette il dito nella piaga: tutto avremmo immaginato tranne che vedere i sostenitori della Brexit allarmarsi tanto quando viene sancita la supremazia del Parlamento britannico su tutto il resto. Nella pratica la questione è molto più complessa, perché oltre alla Camera dei Comuni, eletta, c’è anche quella dei Lord, 800 persone non elette, che non rispecchiano gli equilibri presenti ai Comuni, e straordinariamente contrarie alla Brexit. E’ proprio sui Lord che s’è scatenata la ribellione, anche se tecnicamente il coinvolgimento della Camera alta non è ancora certo: secondo le convenzioni, i Lord possono votare su tutte le materie che non sono presenti nel programma di governo – l’articolo 50 naturalmente non c’era – ma alcuni esperti sostengono che in questo caso ci possa essere un’eccezione.
Ora è necessario aspettare il verdetto della Corte suprema, mentre la possibilità che la May vada a elezioni anticipate s’è fatta più concreta. Il premier ha più volte escluso in passato l’eventualità di un voto prima del 2020, quando scade la legislatura, così come ora insiste – lo ha ribadito venerdì al telefono con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker – che entro la fine di marzo si attiverà l’articolo 50. La battaglia parlamentare potrebbe modificare la risolutezza di May? Non si sa, dal momento che il ministro ombra per la Brexit, il laburista Keir Starmer, ha dichiarato che il Labour non è intenzionato a bloccare la Brexit con un voto. Non è detto che questa linea sia prevalente, visto che molti laburisti – compreso Owen Smith, sconfitto nella corsa alla leadership del Labour da Jeremy Corbyn – continuano a chiedere non soltanto l’intervento del Parlamento, ma anche un secondo referendum. Secondo il Times, alla May basta soltanto minacciare la possibilità di un’elezione anticipata per rimettere in discussione le alleanze sfilacciate che si sono create in questi mesi di attesa della Brexit. In questa corsa all’indietro il Labour è comunque dieci punti percentuali dietro ai Tory. Le elezioni non convengono nemmeno a Corbyn, e la lotta legale politica alla Brexit è finora una speranza.