La laicità dello stato alla prova a Giacarta
Violenze durante la manifestazione musulmana contro l'attuale governatore cristiano della capitale indonesiana, accusato di blasfemia per aver ricordato uno dei princìpi fondamentali di uno stato laico. Auto in fiamme e scontri con la polizia al grido "jihad, jihad".
[Aggiornato alle 18.30] Secondo la polizia, sarebbero 150 mila i manifestanti scesi in piazza a Giacarta venerdì, contro Basuki Tjahaja Purnama, il governatore della capitale indonesiana. Il corteo di massa, iniziato pacificamente, si è trasformato in uno scontro tra le forze dell'ordine e manifestanti islamici radicali, con auto date alle fiamme e violenze, anche verso i giornalisti presenti. La polizia ha usato gas lacrimogeni per disperdere gli oltre 50 mila manifestanti che si erano avvicinati al palazzo presidenziale, alcuni al grido "jihad, jihad". Il presidente Jokowi in serata durante la conferenza stampa si è scusato con i cittadini e ha domandato ai manifestanti ancora in strada di tornare a casa.
Indonesia, la folla di manifestanti a Giacarta (foto LaPresse)
Roma. Per ora gli indonesiani sono più preoccupati dal traffico, dicono al Foglio fonti locali, ma la manifestazione che si terrà oggi a Giacarta, contro l’attuale governatore della capitale indonesiana, è importante per capire il corso della laicizzazione del paese più musulmano del mondo. Ieri il presidente indonesiano Joko Widodo, durante un incontro con i giornalisti, ha tranquillizzato i cittadini dicendo di proseguire con le proprie attività quotidiane nonostante le proteste che, secondo il governo, potrebbero coinvolgere almeno centomila persone. Il capo della polizia di Giacarta, Awi Setiyono, ha detto che a presidio della città saranno dislocate ventimila unità delle forze dell’ordine, e tra di loro ci saranno anche i soldati specializzati nell’ordine pubblico (le forze speciali “Brimob”), che saranno al più alto livello di allerta.
A fine settembre l’attuale governatore della capitale indonesiana, Basuki Tjahaja Purnama, meglio conosciuto come Ahok, ha deciso di candidarsi per le prossime elezioni a Giacarta previste per il febbraio del 2017. Ahok è molto apprezzato dai cittadini: da vicegovernatore si è presentato come un politico giovane, indipendente, riformista, e ha sbloccato molti dei progetti di rinnovamento della megalopoli che erano rimasti fermi in passato a causa dell’eccessiva burocrazia. Come è stato già scritto su queste colonne, Ahok ha un unico problema: ha origini cinesi, ed è di religione cristiana. A Giacarta, dove le manifestazioni sono all’ordine del giorno, le proteste contro Ahok hanno avuto sempre una natura religiosa, mai politica. L’ultimo corteo contro il governatore – il più imponente, rispetto alle altre proteste più contenute quasi quotidiane – aveva raccolto in piazza quasi diecimila persone. La tenuta del governo della capitale, però, è sempre stata garantita dall’enorme supporto anche dei musulmani moderati. Giovedì 3 novembre membri musulmani della polizia hanno organizzato una preghiera in una moschea di Giacarta per domandare la riuscita pacifica della manifestazione.
Basuki Tjahaja Purnama (foto LaPresse)
A scatenare i gruppi più estremisti è stata una frase pronunciata da Ahok qualche giorno fa, quando ha ricordato uno dei princìpi fondamentali di uno stato laico. Ahok ha detto che gli elettori non dovrebbero “farsi ingannare” (ha usato la parola “dibohongi”) da “Al-Maidah 51”, il versetto del Corano che viene interpretato da alcuni musulmani con il divieto di essere governati da leader non musulmani. Dopo quella esternazione, Ahok è stato accusato di blasfemia dal gruppo dell’Islamic Defenders Front (Fpi), che avrebbe coinvolto anche gli estremisti del gruppo Hizb ut-Tahrir. A preoccupare le autorità è il fatto che nelle ultime settimane i toni delle proteste fuori dall’ufficio del governatore e le dichiarazioni dei leader radicali hanno avuto una forte virata verso la violenza.
Polizia in tenuta antisommossa davanti al palazzo presidenziale (foto LaPresse)
Le infiltrazioni dei radicali islamisti alla manifestazione di oggi sono possibili, ed è chiaro che gruppi legati allo Stato islamico potrebbero trarre vantaggio dalla confusione e dalle proteste in città. Jewel Topsfield del Sidney Morning Herald ha scritto l’altro ieri che Nasir Abas, un ex terrorista islamico che ora collabora con la polizia indonesiana, ha trovato in un forum online di jihadisti un messaggio da parte del gruppo siriano di Jabhat Fateh al Sham (il vecchio Fronte al Nusra) che diceva: “Punite Ahok o lo ammazzeremo noi”. Gli analisti parlano di fermento e aspettativa che corre tra i radicali attraverso il servizio di messaggeria Telegram. Messaggi preoccupanti che vengono anche dalle cronache locali: martedì a Yogyakarta (400 km a sud di Giacarta) è esplosa accidentalmente una bomba artigianale riempita di chiodi, dopo che un bufalo ci è passato sopra, e si pensa a un luogo di stoccaggio.
Il presidente Jokowi, in vista della rischiosa manifestazione di oggi, ha incontrato i tre leader musulmani a Giacarta, e tutti e tre hanno invitato i fedeli a “restarsene a casa e dormire”. E infatti molte scuole della capitale hanno deciso di rimanere chiuse oggi. Le ambasciate straniere – compresa quella italiana – hanno pubblicato degli avvisi per i connazionali presenti oggi nella città, invitando a evitare le zone interessate dal corteo e spostamenti inutili. Il futuro laico dell’Indonesia verrà deciso anche da come andrà la manifestazione di oggi.