New York è di nuovo il centro del subbuglio americano, tra feste, attese murdocchiane e un Wsj troppo in crisi
New York è di nuovo il centro del subbuglio politico e mediatico dell’America che va al voto. Dopo qualche tentennamento, Donald Trump ha annunciato che la sua “festa della vittoria” si terrà all’Hilton Midtown: da qualche giorno si diceva che il candidato repubblicano stesse pensando a un party in Florida, per defilarsi e non dover digerire un’umiliazione a due passi dalla festa di Hillary – che si terrà al Javits Center, che ha un soffitto di vetro, si sa che la prima candidata donna alla Casa Bianca ci tiene ai simboli. Ora Trump si sente ringalluzzito e allora prende il coraggio di lanciare la sfida finale, il cuore di New York da occupare anche se gli è ideologicamente tanto ostile. E così gli occhi sono tornati lì, dove tutto era partito, dove a parlare di Trump c’è chi ride, c’è chi si spaventa, c’è chi cambia argomento, mentre attorno si sentono scricchiolii spettrali che riguardano soprattutto il mondo dei media, che in città cresce e s’espande e domina, e poi a volte collassa.
Questa campagna elettorale ha fatto saltare molti dei cliché sulla neutralità mediatica anglosassone, il tifo è stato spettacolare, non soltanto per il numero di endorsement arrivati (a favore di Hillary Clinton) ma anche per il linguaggio sempre meno oggettivo utilizzato anche negli articoli cosiddetti di cronaca. Trump ha deciso di ignorare i media tradizionali, fa dirette su Facebook e parla attraverso Twitter, e continua imperturbabile a offendere i giornalisti che secondo lui non stanno capendo nulla e raccontano una storia sbagliata. Nel microcosmo newyorchese si guarda soprattutto a quel che farà Rupert Murdoch, che in questa campagna elettorale ha dovuto destreggiarsi tra il suo iniziale distacco da un Trump che non gli piaceva affatto fino a un sostanziale riavvicinamento in nome di un’unità conservatrice che non ha avuto grande seguito tra i commentatori e i politici del Gop, ma che invece è piaciuto al pubblico. Con tutti i suoi drammi interni – soprattutto la fuoriuscita per molestie sessuali del “big” Roger Ailes, architetto della rete d’informazione murdochiana – Fox News ha registrato il 59esimo trimestre consecutivo come primo canale cable d’America, come hanno dichiarato orgogliosi i figli-eredi Lachlan e James Murdoch (che non hanno citato Megyn Kelly, la bionda anchorwoman che s’è messa di traverso al trumpismo con scontri clamorosi, e ora deve rinegoziare il proprio contratto, e qualcuno pensava che fosse il momento giusto per levarsela di torno, invece si dice che resta, e che il suo stipendio non sarà inferiore ai 20 milioni di dollari l’anno). Semmai le preoccupazioni arrivano dal Wall Street Journal: narra la leggenda che ci siano stati scontri interni piuttosto accesi a causa di Trump, candidato atipico che spezza storie editoriali, personali e collettive, ma sono i conti che non tornano più.
Da giorni si parla del “tumulto” in corso, e ieri Politico ha raccontato che a fare le spese di questo primo taglio sarà il dorso newyorchese del Wall Street Journal, che era stato voluto da Murdoch per far guerra, esplicita e dichiarata, ai correttissimi liberal del New York Times (la campagna pubblicitaria del lancio fu memorabile, “Too bad nobody told the Times” era uno slogan: peccato che nessuno l’abbia detto al Times). Il team di Greater New York è ora composto da circa 35 giornalisti: ne resteranno 12. Pensavamo che a noi non sarebbe mai accaduto, sussurrano alcuni giornalisti del Wsj, come se dalle loro parti vigesse un’immunità speciale al fallimento. Ma c’è troppo poco tempo per piangere, ora, nemmeno per gli ultimi disastrosi dati registrati dall’edizione cartacea del New York Times. Si guarda agli altri giornali newyorchesi e alle loro inclinazioni, piuttosto: il New York Observer, che è di proprietà del genero di Trump, Jared Kushner, forse non si schiererà, ma l’attesa è per il New York Post, il tabloid murdochiano che fa da termometro politico dentro e fuori la città.