Qualche riflessione su quel che accadrà dopo il voto americano (con sollievo)
Questa deludente campagna elettorale, ruvida nei toni e povera nei contenuti, ha messo a dura prova i capisaldi della democrazia statunitense: chiunque risulterà vincitore, si troverà a essere un presidente diminuito almeno nei primi anni di mandato in termini di prestigio e di forza di azione.
Halloween è trascorso velocemente e senza brio quest’anno a New York nonostante una bella giornata di sole ed una notte chiara. Pochi scherzetti e dolcetti a meno di una settimana dal voto per le presidenziali, una scontata october surprise e un sentimento quasi di stanchezza: sembra che la gente non veda l’ora che questa campagna elettorale brutta e sgradevole – nasty – finisca, indipendentemente dall’esito. Mai come in questa occasione si sono verificate due circostanze che hanno reso il cammino verso la Casa Bianca poco interessante per i cittadini e gli osservatori esterni. Da un lato, la netta prevalenza delle polemiche, spesso di natura triviale, a discapito dei contenuti e dei programmi. Dall’altro, lo scarso entusiasmo attorno ai due principali candidati, che porterà molto probabilmente a un livello di astensione ancora maggiore che in passato: un segnale preoccupante di disaffezione alla politica, se pensiamo che dal 1972 il tasso di partecipazione alle presidenziali americane non supera il 60 per cento degli aventi diritto.
Al di là delle statistiche e dei sondaggi poco attendibili sopratutto nel contesto americano, nei prossimi giorni l’interesse si focalizzerà interamente su chi si installerà alla Casa Bianca nel gennaio 2017. Sarà sufficiente l’ultimo scandalo che ha colpito Hillary Clinton rivelato dall’inchiesta dell’Fbi a risollevare le sorti di Donald Trump, il quale sembrava in caduta libera nei sondaggi dopo le maldestre gaffe sulle donne e le performance non brillanti nei tre confronti televisivi? Il tycoon newyorchese si mostra in questi giorni ottimista e definisce con molta esagerazione la polemica contro la Clinton come “lo scandalo più grave dai tempi del Watergate”. Eppure, la sensazione è che ormai sia troppo tardi per mettere in discussione il risultato finale: da mercoledì prossimo, Hillary sarà con grande probabilità il nuovo presidente eletto degli Stati Uniti. Un risultato rassicurante e quasi ineluttabile, ma che non dovrà indurre a facili entusiasmi. Anzi.
Questa deludente campagna elettorale, ruvida nei toni e povera nei contenuti, ha messo a dura prova i capisaldi della democrazia statunitense: chiunque risulterà vincitore, si troverà a essere un presidente diminuito almeno nei primi anni di mandato in termini di prestigio e di forza di azione. Le numerose polemiche, che hanno colpito duro da entrambe le parti, hanno indebolito l’immagine dei candidati portando a una scelta che, inevitabilmente, sarà per il “meno peggio”. Il che sembra quasi paradossale oggi, dato che alla vigilia della campagna una nomination come quella di Hillary Clinton sembrava godere di una solidità inattaccabile, in virtù delle sue competenze e del suo curriculum per nulla paragonabile a quello del suo “colorito” rivale.
Desta anche preoccupazione il fatto che un’istituzione fondamentale per la sicurezza nazionale come la Polizia federale abbia deciso di assumere azioni così potenzialmente devastanti nell’immediata vigilia del voto. Il direttore dell’Fbi James Comey, nel portare alla luce un nuovo capitolo dell’inchiesta emailgate, ha provocato una frattura all’interno dell’establishment governativo. C’è infatti il rischio che lo storico equilibrio di poteri delle istituzioni statunitensi si inceppi, per colpa di una polemica che ricorda per noi italiani i contrasti tra partiti politici, la magistratura e la stampa (simbolico l’avviso di garanzia per Berlusconi, pubblicato dal Corriere della sera alla vigilia del G7 a Napoli nel 1994)
Al momento non è facile dire quanto Trump abbia guadagnato da questo “assist” targato Fbi: alcuni sondaggi pubblicati nelle ultime ore danno il candidato repubblicano addirittura in sorpasso, ma l’impressione è che alla fine non vi saranno colpi di scena. Hillary vincerà, ma non sarà un trionfo, quanto piuttosto un risultato all’insegna dell’equilibrio che vedrà un Congresso a possibile maggioranza repubblicana, riducendo notevolmente il potere del nuovo presidente. Se questi sono i presupposti, il prossimo inquilino della Casa Bianca non avrà un periodo di governo facile. Hillary Clinton – nell’ipotesi che sia la vincitrice – farà molta fatica ad amministrare poiché dovrà fare concessioni sia a destra sia a sinistra. Da una parte infatti, un Congresso controllato dagli esponenti del Gop potrebbe indurla a pagare pegno più volte cedendo a una linea di tipo maggiormente conservatore; dall’altro, non potranno però essere dimenticati quegli elettori scontenti e delusi, espressione della middle class più colpita dalla crisi economica, che avevano cercato in Bernie Sanders una possibile alternativa e un valido terminale delle loro aspettative.
Realizzare politiche inclusive che rispondano alle esigenze di questa ampia fascia della popolazione statunitense dovrà essere la missione prioritaria dei prossimi anni, al fine di scongiurare il pericolo di un nuovo Donald Trump. Sarebbe infatti un gravissimo errore se, all’indomani delle elezioni, i democratici tirassero un sospiro di sollievo pensando che lo spettro del populismo sia svanito di colpo. Una vittoria di misura e non piena dovrebbe anzi suonare come un campanello d’allarme e indurre la Casa Bianca e l’establishment del partito ad una profonda riflessione, per normalizzare nuovamente il clima politico nei prossimi quattro anni. Lo stesso discorso vale per i vertici del Partito repubblicano che, frammentandosi in innumerevoli fazioni, hanno permesso a un outsider senza alcuna apparente credibilità di ottenere la nomination e sfiorare la vittoria finale. Non va dimenticato inoltre che una buona parte dei voti andrà dispersa sui candidati indipendenti, che non hanno alcuna speranza di vittoria ma la cui crescita di consensi è un’ulteriore prova di come buona parte dell’elettorato non trovi più risposte adeguate nei partiti tradizionali.
Se proprio volessimo trovare una cosa positiva in questa campagna elettorale, potremmo menzionare lo slogan della candidatura di Trump: “Make America great again”. E’ in effetti ciò di cui gli Stati Uniti – e anche l’occidente – avrebbero bisogno, dopo alcuni anni in cui il prestigio e l’influenza di Washington a livello globale si sono appannati. Tuttavia, le premesse per i prossimi quattro anni non sembrano incoraggianti, se il voto per la Casa Bianca rischia di essere determinato dalle notizie legate alle indagini della polizia federale sugli impulsi sessuali di un ex deputato.