Il capitalismo va, ma è senza casa
"Capitalismo senzatetto" è la formula suggestiva, ma non infondata e bene argomentata, scelta da Adrian Wooldridge per definire quello che chiama nella sua lingua “homeless business”. A Wall Street, inteso il nome della celebre strada di Manhattan come simbolo e guida della mondializzazione, non sanno più a che santo votarsi, molti pensano di essere sulla via di diventare dei ricchi barboni, almeno in senso politico. Donald Trump ha rotto con la tradizionale nozione di una linea pro business su tutti i fronti tranne quello fiscale per il quale promette una bonanza di pasticci, a parte il resto che non è poco. Hillary Clinton sogna in privato i confini aperti, sembra, ma in pubblico è condizionata fortemente dal nuovo spirito anticapitalistico di parte notevole della sua base elettorale, e ha in programma una frenata al liberoscambismo e il solito tax and spending delle piattaforme left-wing-liberal si colora di effetti punitivi su larga scala. Un disastro politico, in prospettiva ravvicinata, di cui secondo Wooldridge anche il business è responsabile per la sua vista corta, per non aver voluto e saputo mediare la globalizzazione e la finanziarizzazione delle economie internazionali con dovuti correttivi alle conseguenze del mercato aperto.
Con John Micklethwait, già direttore dell’Economist, il teorico del capitalismo senzatetto condivise la stesura di un libro, “The Right Nation” (in italiano “La destra giusta”) che presentammo ai lettori qui, a suo tempo, come una superba analisi di una certa America post reaganiana oggi travolta, dopo otto anni di enfatica retorica obamiana e di inconsulta reazione anti establishment della base repubblicana, dal vento di tempesta che porta pessimismo popolare, una gigantesca ondata di sfiducia nel sistema e perfino nella solidità delle idee e procedure della democrazia. Il paradosso è che l’impopolarità dei due candidati alla Casa Bianca, uno dei quali però è destinato a occuparla tra breve, fa riscontro all’alta popolarità di Barack Obama e alla quasi miracolosa capacità degli Stati Uniti, società business community e governo federale, di presentare all’appuntamento dell’8 novembre 2016 un livello di crescita che sfiora il 3 per cento e una disoccupazione ai minimi termini, virtualmente inesistente. Si sta meglio di quando si stava peggio, anche grazie ai barboni di Wall Street, ma si soffre cento volte di più e si antivede un futuro nerastro di ineguaglianza, di stagnazione, forse di nuova crisi, e ciascuno lo attribuisce alla sue paure pensando a un’America debole, tradita dalle élite, o a un’America ingiusta, tradita dalle élite. Siccome il business, in particolare il traente e decisivo big business, si trova al centro di questa sfiducia, è il nucleo portante delle élite, ecco che gli scompare da sotto la terra benedetta del centrismo politico, delle triangolazioni che fecero furore all’epoca di Bill Clinton e delle frustate di ottimismo che segnarono di sé gli anni di Reagan e la stagione successiva, trasversalmente per i due partiti. Una voragine il cui risultato è restare senza casa, senza tetto per ripararsi dalle intemperie.
Visto dall’Italia, che come qui ricordava ieri il capo di Confindustria a Cerasa è la seconda nazione industriale d’Europa, questo spaesamento sembra falso ma anche vero. Falso: perché siamo ormai tra i pochi paesi d’Europa, ed è difficile credere che si debba soltanto alle idee della Leopolda o all’attivismo del celebre boy scout che guida il governo da due anni e mezzo, in cui le posizioni pro mercato non sono sputtanate e cercano di guadagnarsi un tetto politico a partire dalla rifondazione o mutazione genetica di ciò che fu la sinistra di classe e circonvicini. Non sarà un caso se il nostro governo di sinistra, di sinistra ma felice, ha dalla sua la Confindustria e ha contro di sé la Cgil e un variegato fronte di antipatizzanti di tutte le tendenze e di tutte le risme. Vero: perché tra Brexit referendaria dello scorso giugno ora contraddetta ma non certo abrogata dalla sentenza parlamentarista dei tre fantastici parrucconi di Londra (High Court), tra lepenismo strisciante e rampante, timidezze del popolarismo tedesco e suoi problemi che si inaspriscono, in vista del 4 dicembre referendario nostro anche noi siamo entrati in una notevole vibrazione di sfiducia o di demagogico sfruttamento della sfiducia, con qualche prospettiva di nullistico successo con l’eventuale vittoria del No e la riconsegna integrale del paese ai suoi classici magheggi in fatto di governabilità e riforme.
Il nostro “sfondo americano” è un progetto europeo mai così impopolare e, tornando a bomba, la responsabilità in questo delle stesse élite che ci hanno messo in mano una moneta forte e una prospettiva realistica nel mercato mondiale, superando la malinconica nostalgia della lira, cioè di quando stavamo decisamente peggio ma in una dimensione che oggi molti ricordano come paradisiaca. Anche perché le migrazioni quando diventano esodi e sembrano invasioni di civiltà non sono fatte, insieme con le guerre e le arretratezze e le radicali o fondamentaliste diversità che spesso le nutrono, insieme con il terrorismo all’angolo di strada, per far sorridere l’uomo comune.
Il business italiano non ha come quello americano, salvo eccezioni, una sua dimensione e vocazione nazionale e internazionalista o multinazionalista, quindi preferisce, Marchionne a parte, invece di correre il rischio di ritrovarsi senza casa, la logica di Totò: Totò cerca casa. La cerca in continuazione dovunque, “ascensore anche sgommato due bicchieri di vin rosso e pollo lesso”, e con questo rinuncia a esercitare una decisiva funzione di leadership o di traenza sociale. Forse i nostri borghesi dovrebbero riflettere sul fatto che alla lunga si può diventare homeless anche se ci si accontenti, in linea di fatto, di qualunque abitazione disponibile, comprese le più comicamente e demagogicamente sghembe. Pare che almeno Confindustria l’abbia capito. Dimenticavo: Wooldridge sostiene che, se alla fine di questo ciclo le cose non fossero cambiate, Wall Street dovrà cercare di combinarsi da sé un nuovo partito che le restituisca un luogo più familiare, una casa, per continuare a prosperare. Ohibò!