Bye bye, melting pot. Parla Borjas
Boston, dal nostro inviato. “Il politicamente corretto, applicato all’immigrazione e al suo studio all’interno dell’accademia, rende impossibile elaborare e compiere scelte responsabili in materia, vale a dire scelte da cui il numero più ampio di abitanti di un paese ospite possa beneficiare o perlomeno non essere danneggiato. Questo è il filo rosso che unisce la decisione affrettata della cancelliera tedesca Angela Merkel di aprire all’improvviso nel 2015 le porte a un milione di rifugiati mediorientali e il dibattito superficiale che abbiamo avuto negli Stati Uniti durante la campagna elettorale per la Casa Bianca”. A parlare con il Foglio è George Borjas, professore di Economia e Politiche sociali all’Università di Harvard. Quest’anno il quotidiano americano Politico, di orientamento liberal, ha inserito Borjas nella lista dei “50 pensatori, protagonisti e visionari che stanno trasformando la politica americana, per la ragione che dice le cose come stanno sull’immigrazione”.
George Borjas (foto dal suo sito)
Allo stesso tempo il candidato repubblicano, Donald Trump, in una delle sue rare citazioni di studi accademici, ha fatto riferimento proprio a un lavoro firmato da Borjas. “L’immigrazione, a giudicare dai sondaggi e da ciò che percepiamo nella vita di tutti i giorni, è certamente uno dei temi che più interessa i cittadini americani anche nel voto di oggi – dice l’economista – Ma nei dibattiti televisivi lo stesso tema non è stato oggetto di domande specifiche rivolte ai due candidati. I quali, quando ne hanno parlato, hanno raccontato comunque soltanto metà della verità”. A destra Trump “ha enfatizzato i costi connessi all’immigrazione, e a ragione, ma ha dimenticato di dire che a certe condizioni l’immigrazione può dare un contributo positivo al paese”, mentre a sinistra Clinton “ha insistito con la tesi che l’immigrazione è positiva per tutti e ha dimenticato anche solo di citarne i costi che invece esistono”.
Borjas non ha atteso l’ultima campagna elettorale americana per occuparsi di immigrazione. A Harvard, dove lo abbiamo incontrato nel suo ufficio alla Kennedy School of Government, è titolare della cattedra di Economia e Politiche sociali intitolata a Robert W. Scrivner. Nel 2011 si è aggiudicato il Premio Iza per l’Economia del lavoro, uno dei massimi riconoscimenti internazionali per gli specialisti del settore. Inoltre ha appena dato alle stampe “We wanted workers”, libro pubblicato dalla W. W. Norton & Company in cui sintetizza oltre trent’anni di suoi lavori scientifici, un saggio concepito per un pubblico generalista che è stato appena recensito positivamente da due testate diverse come Wall Street Journal e New Yorker. Anche la vita privata di Borjas ha influenzato la sua ricerca scientifica: “Io stesso sono un immigrato. Il 17 ottobre del 1962 avevo compiuto dodici anni da 48 ore e arrivai con mia madre negli Stati Uniti con un volo partito da Cuba, dove il regime di Castro aveva privato la mia famiglia degli averi e della libertà. Poi alla metà degli anni 70, mentre ero uno studente di dottorato alla Columbia University, assistetti a un seminario dell’economista Barry Chiswick: quel lavoro, in cui si sosteneva semplicemente che gli immigrati che avevano vissuto a lungo negli Stati Uniti guadagnavano molto di più di quelli appena arrivati, è considerato oggi il primo vero studio di economia dell’immigrazione. Feci una domanda sul caso dei cubani. Chiesi in particolare se quei numeri potevano confermare che gli esuli di quell’isola erano divisi in due diverse ondate, una prima composta essenzialmente di imprenditori e professionisti, una seconda composta di lavoratori meno qualificati, e se questo aveva avuto degli effetti quantificabili sulla loro integrazione”.
Borjas, insoddisfatto della risposta che ricevette allora, all’inizio degli anni 80 si mise alla ricerca da solo. Attenendosi all’analisi economica del fenomeno, è arrivato almeno a due conclusioni nient’affatto scontate. In primo luogo, gli Stati Uniti da anni non sono più quell’Eden dell’integrazione e dell’assimilazione che a qualcuno piace immaginare. In secondo luogo, l’ingresso di nuove persone nei paesi sviluppati, se depurato di ogni aspetto ideologico, assomiglia “a una politica redistributiva del governo come tante altre”: l’immigrazione genera vincenti e perdenti nelle nostre società.
Una delle convinzioni di fondo di Borjas è sempre stata che “gli immigrati non sono dei robot come qualcuno li ha voluti dipingere. Non si limitano a occupare i posti di lavoro che qualcuno suppone debbano riempire. Come notò una volta l’autore svizzero Max Frisch, riferendosi all’esperienza dei ‘lavoratori ospiti’ o ‘gastarbeiter’ nell’Europa continentale del Dopoguerra, ‘volevamo braccia, ma sono arrivati uomini’. Gli immigrati sono persone umane, e le persone umane innanzitutto compiono scelte. Le loro scelte hanno conseguenze, anche inattese”. Prima di continuare, ci tiene a ribadire: “Sono io stesso un immigrato in questo paese, ma la mia ricerca scientifica e il mio ultimo libro non sono dei sermoni ideologici: con essi non santifico né demonizzo gli immigrati”.
In che senso il paese di Ellis Island, che dal 2010 accoglie mediamente ogni anno un milione di persone, ha perso la propria capacità di integrarle all’interno del cosiddetto melting pot? “Gli Stati Uniti non hanno perso questa capacità, semplicemente perché non l’hanno mai avuta in natura – dice Borjas – L’assimilazione non è qualcosa che possa accadere in automatico. Se è vero che gli immigrati sono persone umane, e non robot, e quindi essi compiono scelte, tra queste scelte c’è anche quella, cruciale, di assimilarsi o meno in precise circostanze di tempo e di luogo. Nel tempo cambiano sia gli immigrati sia il paese ospite, perciò nessun risultato è garantito”. Lo studioso ha scelto di analizzare soltanto ciò che poteva essere empiricamente quantificato, cioè l’integrazione economica degli immigrati, lasciando fuori altri fattori che pure non reputa meno importanti anche per i loro effetti economici indiretti come l’integrazione sociale e culturale. Studiando i censimenti americani e l’andamento salariale dei nuovi arrivati negli anni, Borjas si è reso conto che “la performance economica degli immigrati giunti prima degli anni 80 è migliorata enormemente nel tempo. I loro redditi da lavoro sono cresciuti in media del 10 per cento nei primi dieci anni successivi all’arrivo in America, poi del 15-20 per cento nel giro di 30 anni. Per coloro che sono arrivati dopo gli anni 80, c’è da essere molto meno ottimisti. I loro redditi sono aumentati del 5 per cento nei primi dieci anni passati negli Stati Uniti, poi sono rimasti stagnanti. Ancora peggio hanno fatto gli immigrati arrivati negli anni 90, i cui redditi in media non sono cresciuti per niente in dieci anni. Il rallentamento dell’assimilazione economica negli Stati Uniti è stato drammatico”.
Esistono diverse possibili motivazioni di ciò. Alla luce di alcune serie statistiche consolidate, per esempio, viene sfatato il mito degli immigrati che, una volta sbarcati a Ellis Island all’inizio del ’900, trovavano ad attenderli una valle di oro e miele in cui raggiungere immediatamente gli standard di vita dei locali: “Nel Ventesimo secolo, in realtà, né coloro che sono venuti in America nella prima ondata di immigrazione di massa, fino al 1920, né quelli giunti con la seconda ondata di massa, a partire dal 1980, hanno beneficiato di miglioramenti economici chissà quanto rapidi. Sembrerà curioso, ma gli immigrati che si sono assimilati più rapidamente dal punto di vista economico sono stati quelli arrivati nel periodo tra le due ondate, cioè dalla Grande crisi agli anni Sessanta, quando c’erano maggiori restrizioni all’ingresso, legislative e non solo”. In definitiva, nella prospettiva di Borjas, ogni nuova ondata migratoria fa storia a sé ed è impossibile scolpire nella roccia delle leggi di natura sul processo di integrazione.
Un’altra traccia da seguire per spiegare la fine del melting pot è quella del diverso tasso di integrazione economica dei vari gruppi etnici dagli anni 80 a oggi: i cinesi hanno visto i loro redditi aumentare più degli indiani, gli indiani più dei cubani e i cubani più dei messicani che comunque oggi sono il gruppo demograficamente più importante. Perché? In breve, le qualifiche contano. Un livello di istruzione più elevato, per esempio, consente di imparare la lingua inglese meglio e più rapidamente, e di poter aspirare fin da subito a occupazioni più remunerative. Inoltre c’è l’effetto-enclave: quando un immigrato trova ad accoglierlo negli Stati Uniti una comunità grande e coesa di suoi simili, ciò potrà pure aiutarlo nel breve termine a superare tutta una serie di ostacoli pratici oltre che psicologici; nel medio-lungo termine, però, il fatto di limitare lo scambio delle proprie idee e della propria forza lavoro all’enclave di riferimento non fa che ridurre le chance di avanzamento del singolo. E questi sono i principali indicatori empiricamente misurabili che spiegano e allo stesso tempo certificano un rallentamento del processo di integrazione negli Stati Uniti.
Borjas su tutto ciò che non è misurabile ostenta estrema prudenza, ma poi dice: “Non escluderei che anche il mutato atteggiamento culturale della società che accoglie abbia incentivato scelte diverse da quella dell’assimilazione: un tempo una qualsiasi scuola, anche in una grande città come New York City, prendeva sotto la sua ala ogni bambino per trasformarlo in un americano. Oggi invece il governo gestisce molte sue politiche sociali e welfariste sulla base di criteri etnici, quindi calcando le differenze esistenti. Contemporaneamente la stessa parola ‘assimilazione’ è diventata tabù: in alcune università il solo fatto di pronunciarla è paragonato ufficialmente a una cosiddetta ‘micro-aggressione’ verso gli immigrati”.
Per “smontare l’attuale narrativa sull’immigrazione”, come recita il sottotitolo del suo ultimo libro, il docente di Harvard ha testato un altro dei luoghi comuni di cui spesso si abusa nel dibattito pubblico, quello secondo il quale tutta la società trae sempre e comunque beneficio dall’immigrazione. Di nuovo, con gli strumenti dell’economista del lavoro, Borjas ha passato in rassegna i censimenti americani che vanno dal 1960 al 2010, suddividendo i dati grezzi sui cittadini-lavoratori in 40 diversi gruppi in base alle “qualifiche”: “Dal punto di vista educativo, considero cinque gruppi: quelli che hanno abbandonato la scuola superiore senza terminarla, i diplomati alla scuola superiore, quelli che hanno frequentato l’università, i laureati e quelli che sono andati avanti nell’educazione terziaria. Anche l’età conta, visto che i lavoratori più giovani, a parità di qualifica, non sono dei cloni di quelli più anziani, e viceversa. Dal punto di vista anagrafico, ho dunque suddiviso i lavoratori in otto gruppi, in base agli anni di esperienza lavorativa alle spalle: 1-5 anni di esperienza lavorativa, 6-10 e così via. A questo punto ho assegnato ogni lavoratore a ciascuno dei 40 gruppi ‘professionali’.
E’ semplice osservare come la crescita dei redditi di tali gruppi di persone diversamente qualificate sia legata all’andamento dell’immigrazione. I redditi sono cresciuti maggiormente per i gruppi professionali meno interessati da un’immigrazione che avesse qualifiche comparabili, mentre sono cresciuti meno per i gruppi che hanno subìto più concorrenza dagli stranieri. La tendenza che ho studiato rivela che un aumento del 10 per cento del numero di persone appartenenti a uno specifico gruppo anagrafico-professionale fa diminuire in media di almeno il 3-4 per cento il reddito dei nativi di quello stesso gruppo”. E poiché negli ultimi anni l’immigrazione è stata perlopiù poco qualificata e non sempre giovanissima, ecco che Borjas traccia l’identikit di colui che oggi esce sicuramente perdente dal vigoroso afflusso di nuove persone: il lavoratore americano meno qualificato.
L’inattesa cavalcata elettorale di Trump ha contribuito ad accendere i riflettori proprio su questo blocco sociale, ma negli ultimi mesi anche la ricerca accademica sull’immigrazione è tornata per qualche ragione a occuparsene. Borjas, per esempio, ha animato un’accesa diatriba – a suon di articoli di giornale e pubblicazioni scientifiche – con altri colleghi come David Card dell’Università di Berkeley e l’italiano Giovanni Peri della University of California, tornando a studiare il famoso caso Mariel.
Nel 1980, il dittatore cubano Fidel Castro concesse un improvviso e temporaneo via libera a quei cubani che intendevano partire per gli Stati Uniti dal porto di Mariel: nel giro di pochi mesi, nella sola Miami arrivarono circa 125.000 ‘marielitos’, come furono chiamati allora. Ecco quanto di più vicino a un esperimento di laboratorio per studiare l’impatto di un numero significativo di immigrati poco qualificati sui lavoratori nativi: per Borjas, numeri alla mano, quell’impatto fu funesto, abbassando i redditi dei gruppi meno fortunati anche del 10 per cento l’anno. “E’ la semplice legge della domanda e dell’offerta. Tutti siamo pronti ad accettare che quando aumenta la quantità di petrolio a disposizione, di conseguenza il prezzo della benzina scende. Ma poi in molti, per qualche ragione, non vogliono ammettere che lo stesso meccanismo è all’opera con la forza lavoro”.
A dire il vero, esiste una linea di pensiero lievemente alternativa, secondo la quale gli immigrati svolgono i lavori che i nativi non vogliono più svolgere: “C’è un’aneddotica sufficiente per sostenere piuttosto che gli immigrati svolgono i lavori che i nativi non vogliono più svolgere a un certo salario. Questo apre tutto un altro capitolo che ho voluto studiare, e che è il fronte dei ‘vincenti’ dell’immigrazione di massa oggi negli Stati Uniti: i guadagni delle imprese infatti sono superiori alle perdite dei lavoratori meno qualificati. Ciò genera un ‘surplus da immigrazione’ non proprio gigantesco, che stimo in 50 miliardi di dollari l’anno per gli Stati Uniti. Tale surplus è praticamente azzerato nel breve termine se consideriamo i maggiori costi per il welfare dovuti a un’immigrazione sempre più povera e bisognosa, ma d’altra parte potrebbe essere accresciuto se ci fossero molti immigrati qualificati e se alcune delle capacità di queste persone potessero trasmettersi alla forza lavoro locale”.
Dopo una tale mole di ricerche, elaborazioni e spiegazioni, specie nel campo dell’immigrazione non si può sfuggire alla domanda delle domande: che fare? Borjas non ha problemi ad ammettere che, a differenza di tanti colleghi, non ha in tasca soluzioni pronte all’uso e applicabili in ogni situazione. Al contrario, “ci sono molte ragioni che dovrebbero spingere gli scienziati sociali come me a essere umili nell’approcciarsi a questo fenomeno. Perché l’immigrazione e le sue conseguenze, come ho detto, dipendono in larga parte da irripetibili circostanze di tempo e di luogo. Poi perché le scelte politiche, in fin dei conti, non si fondano sui modelli statistico-matematici, ma su alcune convinzioni ideologiche più o meno esplicite. E’ vero, oggi gli Stati Uniti avrebbero molto da guadagnare in termini economici da una politica dell’immigrazione che, invece di essere basata sul meccanismo del ricongiungimento familiare, privilegiasse l’immigrazione altamente qualificata. Ma il fatto che questa scelta da ormai tre decenni non venga compiuta vorrà pure dire qualcosa sulle preferenze dominanti nel paese”. Borjas stesso, pur alla luce di tutte le sue scoperte, dice di giudicare come “estremamente positivo” il fatto che “i miei Stati Uniti possano dare la chance di risollevarsi, non solo in termini di reddito, ad alcuni tra decine di milioni di poveri e disperati di tutto il mondo”. Tuttavia un “approccio più costruttivo” consiglierebbe – perlomeno se l’obiettivo fosse quello di mantenere in vita un potente meccanismo di arricchimento ed emancipazione – di sfidare due tabù “politicamente corretti”.
Il primo tabù è quello che impedisce a molti di riconoscere che l’immigrazione non ha sempre e comunque un effetto economico positivo: nelle società occidentali l’immigrazione di massa genera infatti “vincitori e perdenti”, foss’anche solo in termini economici. Borjas a questo proposito cita una considerazione elaborata nel 2013 da Paul Collier, professore a Oxford: “Una coalizione rabbiosa composta da xenofobi e razzisti è pregiudizialmente ostile agli immigrati e non perde occasione per ripetere che l’immigrazione tout court è negativa per i nativi. Comprensibilmente, ciò ha scatenato una reazione: preoccupati dalla sola idea di fornire un qualche sostegno a questi gruppi, gli scienziati sociali hanno teso ogni proprio singolo muscolo per dimostrare l’opposto e cioè che l’immigrazione è positiva per chiunque”. Lo studioso di Harvard fa sue queste parole e aggiunge: “Non l’ho mai detto prima in pubblico, ma sospettavo da tempo che molta della ricerca sui movimenti di popolazione fosse ideologicamente motivata. Fuor di ideologia, invece, i dati dimostrano che è necessaria una distribuzione più equa di costi e benefici del fenomeno migratorio”.
Il secondo tabù politicamente corretto è quello che, assimilando gli immigrati a dei robot dotati di forza lavoro o di una loro capacità contributiva al sistema pensionistico, dimentica il piccolo dettaglio di trovarsi di fronte a esseri umani in carne e ossa: “Sempre Collier, nel 2013, ha scritto che ‘per quanto possa apparire una verità scomoda, gli immigrati portano la loro cultura con sé’”, lasciando intendere che anche preferenze sociali e culturali di determinati gruppi hanno un impatto differenziato sul paese ospite: “Collier ha nuovamente ragione. Così come andrebbero tenute in contro le riflessioni del politologo Robert Putnam, secondo il quale ‘l’immigrazione e la diversità etnica tendono a ridurre la solidarietà sociale e a intaccare il capitale sociale’. Nonostante tale specifica conseguenza dello spostamento di milioni di persone sia difficile da quantificare e studiare in termini economici – ammette Borjas – essa è sotto gli occhi di tutti”. Non c’era bisogno di attendere le elezioni americane per capirlo. “D’altronde è bastato qualche milione di rifugiato mediorientale in Europa, su una popolazione complessiva di oltre 300 milioni di persone, per generare sconquassi inimmaginabili nello scenario politico-elettorale del Vecchio continente – conclude lo studioso – Chiudere gli occhi di fronte a questi aspetti del fenomeno migratorio, come hanno fatto anche molti appartenenti al mondo accademico, ha contribuito grandemente alla sorta di sollevazione popolare che vediamo adesso in atto nelle nostre società”.