C'è una guerra in corso in Thailandia, e ci riguarda un po'
Pattani, dal nostro inviato. “Viaggi da solo?”. E’ la domanda ricorrente che si sente rivolgere un viaggiatore nelle province del profondo sud thailandese. “Sei musulmano?”. E’ l’altra domanda. Tanto più se il viaggiatore ha un aspetto che, nell’immaginario locale, appare vagamente mediorientale. Tra le due domande non c’è alcun nesso. La prima è dettata dall’incredulità. La seconda è retorica. Come dimostra l’ulaman, un leader religioso, incontrato in una piccola moschea: non attende risposta e ti abbraccia. Nella loro semplicità, entrambe le domande esprimono il bisogno di identificare chiunque in un luogo dove le identità appaiono confuse e ogni dubbio rappresenta un pericolo. Il che spiega un’altra domanda, rivolta dai thai quando scoprono la destinazione del viaggio: “Perché vuoi andare laggiù? Sono gente cattiva”.
“Laggiù” sono le tre province a maggioranza musulmana di Narathiwat, Pattani e Yala, una striscia di terra incuneata nella penisola malese, quello che era il principato di Pattani, collegato ad antiche civiltà indonesiane. E’ il teatro di una guerra tra governo thai e terroristi (o ribelli) islamici che dal gennaio 2004 ha provocato circa 7.000 morti. In maggioranza civili. “L’ordine è di colpire insegnanti, funzionari del governo, monaci buddisti, simboli del potere centrale”, dice un agente dell’intelligence militare. “Raccontano che il problema nasca duecento anni fa, con la conquista thai”, spiega Sukree Langputeh, docente di scienze sociali alla Yala Islamic University. “Per me il problema è creato dalle tre ‘R’: razza, religione, risorse. Alcuni negano il problema della religione e della razza, ma è importante perché definisce un’identità. La richiesta non è di uno stato islamico, bensì di una piattaforma di leggi che consideri le necessità delle comunità locali”.
I tentativi di accordo si sono arenati nel 2014 e negli ultimi mesi c’è stata un’ulteriore escalation di attentati: oltre venti con cinque morti tra settembre e novembre. Ma soprattutto sembra si sia alzato il livello dello scontro. Mentre prima gli attacchi erano confinati entro le tre province e si evitavano obiettivi occidentali, ora la strategia è cambiata. Lo dimostrerebbero le bombe dell’11 e 12 agosto esplose in località turistiche come Hua Hin, Surat Thai e Phuket che hanno provocato quattro morti e una ventina di feriti (tra cui dieci occidentali). Secondo l’Internal Security Operations Command tutti gli indizi portano al Barisan Revolusi Nasional (Brn), uno dei gruppi separatisti islamici, forse collegato alla Jemaah Islamiya indonesiana (vicina ad al Qaida). Da quanto riportato da un’agenzia stampa malaysiana lo stesso Brn ha rivendicato gli attentati. Secondo Anthony Davis della società d’intelligence IHS-Jane’s, è un primo avvertimento al governo militare thai alla vigilia di nuovi negoziati. “Il conflitto nel sud non può essere definito religioso, bensì etnonazionalistico”, commenta Gothom Arya, attivista per i diritti umani che si definisce agnostico. “Il problema, però, è complicato dal fatto che nel sud le comunità locali si stanno sempre più dividendo tra i diversi gruppi indigeni”.
“Buddhisti e musulmani hanno vissuto centinaia d’anni in pace, da molto prima che questo territorio entrasse a far parte della Thailandia”, dice Angkhana Neelapaijit. Musulmana, educata alla scuola cattolica dell’Assunzione di Bangkok, è considerata una sostenitrice del dialogo inter-religioso. “La storia è altro che la costruzione di una nazione e la nostra storia viene negata”. Angkhana, che dal 2004 accusa il governo thai per la misteriosa scomparsa di suo marito Somchai Neelapaijit, presidente dell’Associazione degli Avvocati Musulmani, oggi si dichiara ancor più preoccupata per l’articolo 67 della nuova Costituzione, che maschererebbe in forma “ambigua” l’assunzione del buddismo Theravada a religione nazionale. “I terroristi dicono che questa è una terra musulmana. Ma prima di essere musulmana era buddhista e prima di essere buddista era hindu” è la risposta di un miliziano del Chor Ror Bor, uno dei tanti gruppi paramilitari di difesa dei villaggi buddisti.
“Da queste parti le distinzioni diventano sempre più sottili: quale dialetto parli? Perché è il tuo linguaggio che definisce la tua appartenenza a una comunità o a una religione”, spiega Hara Shintaro, sociolinguista giapponese che ha scelto Pattani come campo di studi alla fine degli anni Novanta. Oggi anche lui è un uomo dall’identità incerta: per l’aspetto appare buddista, ma è musulmano, parla yawi, dialetto malay che lo identifica come tale, e quando parla in inglese, riferendosi alla rivendicazioni locali, poco a poco perde il distacco accademico e passa da un generico “loro” a un inclusivo “noi”. Secondo Hara la rivendicazione reale e realistica è una forma d’autonomia. “L’indipendenza è un argomento tabù. A lungo termine si può pensare alla costituzione di una ‘piccola patria’. Ma appare un’ipotesi poco realistica. Anche perché i diversi gruppi non hanno idea di come governare uno stato indipendente. Non sanno che lingua utilizzare né come applicare la sharia”.
In questo scenario sembra poco realistico anche il collegamento dei gruppi islamici nel sud della Thailandia con l’Isis. “Non sono compatibili ideologicamente. L’Isis ha per obiettivo il sultanato, qui rivendicano un territorio ancestrale. Tutti i membri dell’insorgenza parlano malay per sottolineare il carattere nazionalistico”. Secondo Hara per il momento il rischio di contagio con l’Isis o al Qaida è limitato. “Dipende dall’evolversi della situazione. E’ possibile che qualche gruppo decida di superare quel limite inespresso ma ben definito dal governo. Per ora sembra che la strategia soft stia funzionando. Anche in questo caso le cose vanno ‘al modo thai’: si cerca un compromesso. In fondo qui nel sud nessuno è stato ‘invitato’ dai militari per quel ‘Attitude adjustment’ con cui cercano di neutralizzare l’opposizione”.
Il Wat Golokthepwimon di Sungai Kolok, città di confine tra Thailandia e Malaysia, rappresenta molte delle strane contraddizioni di questa terra. E’ un bel monastero circondato da un alto muro sovrastato da filo spinato. Vi si pratica il buddismo Theravada, ma la statua più imponente è dedicata Guanyin, dea della misericordia venerata soprattutto dai buddisti di scuola Mahayana (negli ultimi tempi sospettata di favorire l’opposizione al governo). Ai piedi della statua, un monaco taoista della comunità cinese chiacchiera amabilmente con l’abate buddista e con il sergente alla guida dell’Hummer posto a protezione del monastero, osservando il passaggio di una donna dal capo coperto dal hijab che porta un cesto di verdure alle cucine.
A pochi passi dal monastero si apre la via centrale di quello che è stato definito il centro della “Red Light Jihad”. E’ una versione squallida e decadente dei quartieri a luci rosse di Bangkok, frequentata da gruppi di malaysiani che cercano qui le trasgressioni proibite in patria dalla sharia. Ma gli ultimi attacchi nella provincia scoraggiano questa forma di turismo sessuale. I locali deserti e le ragazze in attesa appaiono ancor più tristi. Per trovare un po’ d’animazione bisogna spostarsi al Gol Ok Riders Club, un club di motociclisti musulmani. Sungai Kolok, del resto, si è conquistata la definizione di “un po’ Tijuana e un po’ Kabul”.
Uno degli attacchi più recenti, il 3 settembre, ha colpito il treno che collega Sungai Kolok a Pattani, col bilancio di un morto e tre feriti. Sembra proprio uno di quei treni che attraggono i turisti a caccia del pittoresco. Ma il vagone centrale è riservato a un plotone di militari che controllano il percorso. “Nei villaggi ci sono circa diecimila terroristi” dice uno, osservando nervoso i passeggeri che salgono e scendono a ogni stazione. Si tranquillizza all’arrivo a Pattani: la stazione è ben protetta.
Pattani vanta la più grande e bella moschea della Thailandia. Nel parco s’incontrano molti fedeli, che sorridono allo straniero solitario dall’aspetto mediorientale e provano a indovinare da dove provenga citando i paesi arabi che hanno visitato. Forse tra loro c’è qualcuno di quelli di cui parlava l’agente dell’intelligence thai: “Molti hanno frequentato scuole islamiche in Indonesia, Pakistan, Arabia Saudita, nei paesi del medio oriente e sono tornati indottrinati”. La città, che per molti è il cuore musulmano del sud thai (primato conteso dalla città di Yala), è al centro di una delle zone più colpite dagli attentati. I villaggi dei dintorni sono presidiati da posti di blocco, i pochi monasteri buddisti sono in abbandono o trincerati. I maestri delle scuole rurali devono essere accompagnati dai militari. Qui anche gli alberghi sono obiettivi sensibili. In settembre due bombe sono esplose vicino al Southern View Hotel, uccidendo una donna e ferendo 30 persone. Nel 2008 era toccato al CS Pattani Hotel. Adesso è perfettamente restaurato. Ed è sempre frequentato da ufficiali dell’esercito, polizia, funzionari del governo, giornalisti di passaggio. Nel parcheggio i suv e pick-up neri con targhe dai numeri uguali che in Thailandia sono simbolo di potere, sono protetti blocchi di cemento.
La sharia secondo i thai di Pattani
“Ci sono troppi gruppi tra i musulmani. Il governo ha contatti solo con alcuni, col rischio che gli altri possano essere manipolati”, spiega il professor Ibrahem Narongraksakhet del College di Studi Islamici della Prince of Songkla University di Pattani. A suo parere, comunque, il fatto che il governo abbia aperto le trattative con il Mara Pattani (organizzazione che raccoglie sei gruppi insorgenti) è un passo avanti. Non sembra scoraggiato nemmeno dalla modifica costituzionale: il buddismo Theravada come religione predominante, sospetta il professore, non è per avversare l’islam bensì le sette come il Dhammachaya, movimento esoterico più vicino al buddismo Mahayana, che ha sostenuto l’ex premier Thaksin. “Tutti ripetono ‘new, new’ senza sapere bene che fare. Alla fine, però, arriveremo a ottenere una zona economica speciale con leggi e pratiche locali” dice, affermando anche lui il concetto delle piccole patrie. Riguardo la sharia, sdrammatizza: “Non pensiamo a pratiche come il taglio della mano. E’ qualcosa che riguarda il diritto di famiglia, la convivenza sociale”.
L’importante è non cadere nella trappola di chi vuole trasformare il conflitto separatista in una guerra di religione. Si aprirebbero le porte a influenze esterne. Meglio affidarsi al sistema dei tidikas e delle pondok, asili e scuole islamiche. “Il sistema scolastico religioso è un antidoto all’estremismo: ha il potere d’insegnare, spiegare”. Il problema più profondo in una società tanto religiosa è la convivenza con i buddisti. “Musulmani e cristiani sono entrambi popoli del libro. Hanno un Dio. I buddisti non hanno dio”, afferma. E’ corretto da un punto di vista filosofico. Ma qui suona male. Il professor Abdulrahim Wayayo, vicepreside della facoltà di Studi islamici dell’Università di Narathiwat è della stessa idea. “Non puoi essere musulmano e buddista perché l’islam è una religione completa: regola sia la religione sia la politica”. E’ questo il cortocircuito che si crea nel sud della Thailandia: l’islam è elettrico, il buddismo è liquido. Anche per Wayayo la soluzione sta in un sistema scolastico che educhi all’islam moderato. Senza contare che le scuole islamiche offrono buone opportunità d’impiego. “S’insegna anche l’arabo e molti studenti hanno trovato lavoro come interpreti negli ospedali privati di Bangkok dove vanno a curarsi dai paesi del Golfo”.
La spiaggia di Hat Narathat potrebbe essere un buon posto per verificare se l’osservanza alla legge è rigorosa, pensando di cogliere qualche immagine di donne in burkini. Poco a nord di Narathiwat, è lunga cinque chilometri e bordata da pini. Ma è sporca e il tempo è brutto. C’è poca gente, nessuno in acqua. Le donne in hijab sono matrone che fanno un picnic. In compenso la scena è colorata dalle korlae, le tradizionali barche da pesca dalla forma a scimitarra. Talmente belle che i loro modellini sono il vanto dell’artigianato locale. Nella bottega di un venditore è esposta anche una splendida guaina di scimitarra: gliel’ha regalata un amico saudita. Solo la guaina. “E’ un po’ come qui. I problemi sono all’interno” dice, con l’aria di offrire una perla di saggezza. Per Borinai, un musulmano di Bangkok trasferito a Narathiwat per lavoro, l’analisi è più semplice: “E’ vero: la gente nella foresta si spara. Che c’è di strano? Questi hanno sempre fatto così”. La cosa che lo infastidisce è il cambiamento dei costumi: “Ti guardano male se bevi una birra. E poi le donne: sino a dieci anni fa andavano in giro a capo scoperto, adesso sono tutte velate”.
Lo scontro sui costumi s’incarna negli uffici del istituto culturale di Narathiwat. I funzionari sono equamente divisi tra musulmani e buddisti e la conversazione diventa battibecco, tra mille equivoci linguistici, imbarazzi e reticenze, sui rapporti interpersonali, il matrimonio inter-religioso, l’applicazione della legge. Se è impossibile trovare un accordo nella discussione sui matrimoni, sono tutti della stessa opinione sulle cause del conflitto. Si annidano in un oscuro complotto e un’altrettanto confusa commistione tra criminalità comune, trafficanti di droga ed esseri umani, politicanti locali e terroristi.
La scomparsa del re di Thailandia, Sua Maestà Bhumibol Adulyadej, il 13 ottobre scorso, ha complicato la situazione. Non solo perché si era impegnato nel cercare un dialogo con la minoranza musulmana dei suoi sudditi. Ma perché quella minoranza di sudditi non vuole rispettare le regole del lutto. Lo Sheikhul Islam Office, l’Autorità nazionale thai per l’islam, ha infatti annunciato che i musulmani che vogliono rendere omaggio all’urna reale non devono inginocchiarsi né vestire di nero. “Prosternarsi è riservato solo a Dio” è stato l’editto. La proibizione dell’abito nero, invece, è stata giustificata col fatto che “la tristezza dev’essere interiore”. “E’ solo un abito nero? Citate il passo del Corano che lo vieta” è stato un commento su Facebook.
I conservatori inglesi