Come Trump-Clinton è diventata un'epica battaglia tra sessi
Se si dà retta ai sondaggi, Hillary Clinton sarà con tutta probabilità la prima presidente donna degli Stati Uniti, ma questa non è la storia di Hillary Rodham Clinton nella campagna elettorale del 2016. Inaspettatamente, e in maniera sorprendente sia per i suoi tanti fedeli sostenitori sia per i suoi milioni di odiatori rabbiosi, Hillary è diventata una figura simbolica intrappolata in uno scontro tra potere e genere che ridefinisce aspettative storiche. Rimuginando sulle ultime settimane della campagna elettorale, ho spesso ripensato alla poesia di Thomas Hardy “La convergenza dei due”. Hardy immagina la costruzione del Titanic in pubblico per molti anni, mentre al buio l’iceberg, “la metà gemella”, si stava formando a sua volta, seguendo il destino comune verso la collisione fatale. Oggi la convergenza è tra una donna che ha dedicato la propria vita al servizio pubblico e un uomo che incarna tutto ciò che di riprovevole, taccagno ed egoistico c’è nel capitalismo americano. Sono le “metà gemelle” del cataclisma in arrivo l’8 novembre, l’elezione che Donald Trump ha modestamente definito “un crocevia nella storia della nostra civiltà”.
Confrontando la storia di Trump e di Clinton emerge un’immagine nitida dello scontro di civiltà che i due rappresentano, a partire dall’infanzia: Hillary cresceva a Park Ridge, in Illinois, facendo la scout e andando benissimo a scuola; Trump, che è cresciuto nel Queens, tirava sassi ai bambini del vicinato e pugni in un occhio alla maestra. Hillary viene spesso rimproverata perché è ambiziosa, come se questo fosse un crimine, e perché progettava di diventare presidente sin da quando frequentava la scuola di legge di Yale. Ma se la sua ambizione politica è dimostrata da una serie solida di risultati – come avvocato, come difensore dei bambini rifugiati, come capo della commissione sull’Istruzione in Arkansas, come first lady, come senatore, come segretario di stato – Trump è rimasto a lungo ignorato, oscurato dalla serie di fallimenti (i casinò, la squadra di football, la compagnia aerea, l’università), dalle sei bancarotte e riprese miracolose, dalle circa 3.350 cause come querelante o querelato, e con il successo da star dei reality. Nel 2012, quando Hillary stava completando il suo mandato al dipartimento di stato, Trump portava a termine il suo settimo cambiamento di partito ritrovandosi così repubblicano, furente per la sconfitta elettorale – quella di Mitt Romney contro Barack Obama, definita da Trump “una immensa falsità e parodia” – e pronto a lanciare la propria candidatura. E ora, immenso e perfettamente formato, ignorante e inarrestabile, Trump si sta gettando nello scontro frontale dell’8 novembre.
Com’è che una sfida tra un politico liberal dall’enorme esperienza e un imprenditore ricco di destra è diventata un’epica battaglia dei sessi? Naturalmente l’idea di un presidente donna era una barzelletta sporca molto prima che le donne americane potessero votare. Nel 1871, dopo che la suffragetta Victoria Woodhull corse per la presidenza, Harriet Beecher Stowe scrisse in un romanzo (“Mia moglie ed io”) che “una donna che non è disposta a farsi trascinare dentro a ogni canile e farsi gettare dentro a ogni secchio di acqua sporca, come una vecchia scopa, non avrebbe mai il permesso di correre come candidato… e che razza di sciagurata sgualdrinella sarebbe poi per riuscire a sopravvivere?”. La convinzione che essere abbastanza forti da sostenere una corsa presidenziale renda una donna una bitch, una stronza, è ancora dietro alla gran parte dell’odio patologico nei confronti di Hillary. Definita da una serie di repubblicani rabbiosi puttana, stronza, lesbica, rompicoglioni, Hillary è stata massacrata, presa a pugni, maltrattata e gettata nel secchio per oltre 25 anni. Tutti sapevano che questa elezione sarebbe stata odiosa: come Carl Bernstein ha scritto nella biografia di Hillary, “A Woman in Charge” (2007), “all’inizio del Ventunesimo secolo”, il Partito repubblicano “esisteva con due obiettivi onnicomprensivi: eleggere un presidente e sconfiggere Hillary Clinton e il clintonismo”.
Il presidente Barack Obama e Hillary Clinton si abbracciano sul palco della convention democratica americana di luglio (foto LaPresse)
Come si sa, Hillary è entrata nella sfida presidenziale portandosi dietro una storia pesante, incrostata di voci, bugie, allusioni e teorie del complotto, fabbricati e saldati per decenni dagli attivisti conservatori, dai rivali democratici, dai carrieristi anti clintoniani e ora dai social media. Hillary è sempre definita come disonesta – “Crooked Hillary” – anche se Politifact e altri fact checkers tendono a mostrare il contrario. L’ex direttrice del New York Times, Jill Abramson, ha scritto che Hillary è “fondamentalmente onesta e leale”. Benché le sia stata addossata la responsabilità degli errori nella sicurezza durante l’attacco all’ambasciata americana a Bengasi, nel 2012, dieci inchieste del Senato hanno mostrato che non ci sono stati reati da parte del dipartimento di stato su quella tragedia. Hillary è stata ampiamente criticata per l’utilizzo che ha fatto del suo server privato per email ufficiali, anche se un’inchiesta dell’Fbi ha chiarito che la colpa maggiore è stata la disattenzione e non è andata avanti con le incriminazioni. Questo incidente è stato trattato dai media in modo esaustivo per 560 giorni senza alcuna prova di informazioni trafugate o di leak.
Esistono multipli e sovrapposti circoli di odiatori di Hillary e non sono né tutti uguali né tutti repubblicani. Ci sono 45 libri contro la Clinton sul mercato e sia uomini sia donne si sono fatti una carriera insultando Hillary. Dinesh D’Souza, che è nel business del complottismo dagli anni Ottanta, ha raccolto gli argomenti di questi odiatori nel suo libro “Hillary’s America” (2016) in cui descrive Hillary come “l’es nero del Partito democratico”. Ma in tutti i villaggi e circoli, il balzo dal disaccordo politico all’odio viscerale è ben più grande e più strano di quanto la politica o i politici possano spiegare.
Nel cuore fiammeggiante di questa campagna, c’è un villaggio come Salem, dove il sospetto e l’ostilità rapidamente si trasforma in estasi da streghe bruciate. La prima volta che me ne sono accorta era un giorno di sole a Washington, nell’ottobre del 1993. Nella discesa erbosa dietro al Vietnam War Memorial, alcuni gruppi di veterani stavano vendendo oggetti anti Hillary, tra cui uno sticker che diceva: “Impeach Hillary, la troia della riforma sanitaria” (erano arrabbiati per il passato anti Vietnam di Bill Clinton e offesi dal fatto che la first lady stesse guidando un enorme e complicato progetto di riforma della sanità). Questi signori avevano la bandana o erano bikers tatuati, forse i padri dei ragazzi che ora riempiono i comizi di Trump muggendo “Lock her up” e “Hang that Bitch!” . Erano anche molto diversi dai sofisticati newyorchesi che pubblicavano il magazine Spy e che nel dicembre del 1993 misero Hillary in copertina con un corpo da dominatrix in costume da bagno di pelle e catene.
Ora del febbraio del 1996, Henry Louis Gates, professore di Harvard, chiamava sul New Yorker “Hating Hillary” uno di questi “passatempi nazionali che uniscono le élite e le persone normali”. C’era una nuova lista di accuse: nel 1996, c’era il Whitewater (per il quale i Clinton non sono mai stati processati); c’era il suicidio di Vince Foster (lo ha ucciso lei?); il Travelgate (il licenziamento e la sostituzione dello staff di viaggio della Casa Bianca: ancora una volta, i Clinton non furono mai processati); l’assunzione di un cuoco americano invece che francese; il divieto di fumo alla Casa Bianca; la poca attenzione alla diplomazia sociale di Washington; l’atteggiamento snob nei confronti della stampa; e poi il fallimento della Health Care Initiative – ma a questo punto l’odio per Hillary era fluttuante. Sally Quinn, anfitriona di Washington e moglie del direttore del Washington Post Ben Bradlee, una volta disse che Hillary aveva semplicemente “qualcosa che fa incazzare la gente”.
In realtà Quinn era soltanto una voce che si è alzata in anticipo dal villaggio femminile delle odiatrici di Hillary, molte democratiche, che emersero successivamente quando sembrava che Hillary volesse candidarsi al Senato. C’erano le socialities degli Hamptons che di facciata si mostravano solidali perché era una candidata donna ma dolcemente sottintendevano che non avesse carisma; e c’erano le pioniere femministe, che per anni avevano sognato di vedere una donna presidente, ma avevano criteri strettissimi per chi potesse davvero diventarlo. Nel 2008, quando Hillary incontrò sulla strada delle primarie Barack Obama, le più arrabbiate di corte erano liberal giovani e femministe progressiste, che si offendevano quando si sentivano dire che avrebbero dovuto votare una donna, soprattutto una donna bianca che aveva sostenuto la guerra in Iraq, soltanto per il suo sesso.
Rebecca Traister, una giornalista femminista che era molto combattuta sulla candidatura di Hillary, coprì la campagna elettorale del 2008 e nel suo appassionato e importante libro “Big Girls Don’t Cry” (2010) riportò tutte le cose sessiste e misogine che erano state prodotte dalle fazioni anti Clinton: obiettivi per gli orinatoi con la faccia di Hillary; t-shirt con la scritta “Avrei voluto che Hillary fosse la moglie di O.J.” e “Hillary Sucks But Not Like Monica”; e gli schiaccianoci ormai ovunque. Ma Traister si compiaceva di questi gadget in modo quasi perverso. Voleva scioccare le femministe millennial con le prove del sessismo virulento: “Questi esempi della resistenza basata sul gender nei confronti di Hillary potevano aprire gli occhi alle giovani ragazze”. Ed era anche convinta di stare assistendo al “rantolo di morte della cultura patriarcale, l’ultimo respiro di chi aveva sputato bile anti Hillary per decenni senza però riuscire a impedirle di conquistare potere politico”.
Quello non era un rantolo di morte, sorella, era il rumore di un serpente a sonagli che si avvicinava. Ora, nel 2016, gli standard culturali sono più rilassati, i social media sono dominanti, e le oscenità che si dicono al bar e che nessun candidato mai aveva mai riferito sono comparse sulle magliette dei sostenitori di Trump. Nel 2016, l’odio per Hillary ha preso una nuova sfumatura di violenza sessuale, con la vagina come tropo centrale. In questo contesto, le frasi di Trump del 2005, sul “pussy-grabbing”, suonano quasi pittoresche.
Hillary Clinton parla a Pittsburgh, Pennsylvania, il 7 novembre, ultimo giorno della campagna elettorale (foto LaPresse)
Per decenni, le regole non scritte prevedevano che nessuna candidata donna potesse menzionare il sessismo senza scatenare reazioni furiose riguardo al giocare la “woman’s card”. Persino parlare del proprio gender era vietato. Nella serie tv “Veep”, Selina Meyer va in panico quando deve chiarire la propria posizione sull’aborto parlando di se stessa. “Non posso parlare di me come una donna! – insiste – La gente non può saperlo. Gli uomini odiano questa cosa. E le donne che odiano le donne odiano questa cosa… il che credo sia la maggior parte delle donne”. Nel 2008, per lo scorno di molte femministe, Hillary corse come un uomo, evitando ogni enfasi sul proprio gender o sulla propria possibilità di diventare il primo presidente donna degli Stati Uniti, come era stato spiegato in un celebre memo dal suo campaign manager, Mark Penn: “Molti elettori vedono il presidente come ‘il padre’ della patria. Non vogliono nessuno che sia la prima ‘mama’”. A questo giro, Hillary è molto più a suo agio come donna, ma si è tenuta lontana da ogni forma di risposta all’immaginario offensivo e violento della campagna di Trump. Quando a metà ottobre le è stato chiesto se è stata trattata in modo differente essendo una candidata donna, Hillary ha liquidato la questione come un argomento buono per “molte tesi di Phd e per il giornalismo popolare”. Penso che sia stata la risposta giusta. Ci sono talmente tante questioni nazionali e globali spaventose in ballo che non vale la pena perdere tempo nel trattamento diverso riservato a una donna.
Quando la campagna elettorale è iniziata non era immediatamente chiaro che l’odio nei confronti di Hillary e la misoginia si sarebbero trasformati in qualcosa di pericoloso. Trump era impegnato a spazzar via i suoi avversari alle primarie repubblicane. Hillary si stava battendo a sinistra con Bernie Sanders. Avevano molte cose che li tenevano occupati. E Clinton per lungo tempo ha cercato di ridurre, deflettere, decontestualizzare gli attacchi personali come sintomo di un’ansia generale e legittimata nei confronti del cambiamento sociale. Quando gli attacchi iniziarono durante la campagna presidenziale del 1992, Clinton disse: “Mi sembra che sia in corso una gran conversazione nazionale della quale io non sono parte, ma che non è tanto su di me personalmente quanto su tutti i cambiamenti che stanno avvenendo in questo paese – riguardo alle donne e al loro ruolo, e alle scelte che facciamo nelle nostre vite”. Nel frattempo stava diventando chiaro che Trump stava fomentando e sobillando una rabbia primitiva e vendicativa, incoraggiando i cori sull’imprigionare, impiccare e perfino sparare alla Clinton. I giornali americani si sono scandalizzati. Ma Hillary non ha risposto a questi abusi terribili o alle minacce allo stesso modo usato per gli altri elementi fascisti della demagogia trumpiana.
Molti democratici hanno criticato la segretezza e l’inaccessibilità di Hillary, specialmente nei confronti della stampa, e sono preoccupati per la sua scarsa popolarità ai seggi. La visione tradizionale tra i suoi sostenitori è che è molto qualificata ma eccessivamente circospetta, che è una politica di razza ma una candidata scarsa, che ha bisogno di una storia da raccontare e di un set di slogan che possano entusiasmare il pubblico. Se avesse dovuto correre contro un avversario più razionale, forse avrebbe avuto più difficoltà nel difendere i suoi risultati e le sue politiche. Ma anche se il candidato repubblicano non l’avesse attaccata personalmente, i suoi nemici avrebbero fatto tutto ciò che era in loro potere per infangarla e sessualizzare la sua figura.
Ovviamente, in quanto donna, Hillary ha dovuto camminare su un filo per tutta la campagna. La professoressa di linguistica Deborah Tannen ha spiegato la doppia sfida che un candidato e leader femmina deve affrontare: “Se parla o agisce come ci si aspetterebbe da una donna, rischia di essere vista come poco sicura o perfino incompetente. Ma se parla o agisce come ci si aspetterebbe da un leader, rischia di essere vista come troppo aggressiva e sarà soggetto di infiniti altri giudizi negativi – oltre che insulti – che si applicano soltanto alle donne”. Il lessico machista e ridicolizzante di Trump – che è stato usato anche contro i suoi avversari maschi ma con sottotesti meno sessuali, asserendo la dominazione maschile (“little Marco”) ma senza insinuazioni al fatto che Rubio possa essere gay – assumono toni evidentemente misogini quando l’avversario è femmina, e questo comprende giornaliste, conduttrici tv e persone critiche. “Disgustosa”, “nevrotica” e “malata” sono state le sue profferte preferite.
Un sostenitore di Trump inneggia all’arresto di Clinton a un evento elettorale a Manchester, New Hampshire, il 28 ottobre (foto LaPresse)
Inoltre, come ha mostrato Penn, c’è una forte componente edipica nella società americana che vede nei leader maschili delle figure paterne. Trump si autopromuove come un padre modello, circondato dai suoi cinque figli. I suoi sostenitori lo vedono come un buon padre, spesso lontano ma protettivo e forte. Ed è quasi 20 centimetri più alto di Hillary, cosa che lo rende quello da chiamare quando c’è un’emergenza. La gente vede Hillary come una figura materna, ma come una cattiva madre. Sia i figli sia le figlie nutrono risentimento nei confronti delle madri forti. I colleghi maschi di Margaret Thatcher (secondo il suo biografo Charles Moore) la chiamavano “la madre di cattivo umore”. Quando Hillary incoraggia il pubblico, ha notato Dana Milbank sul Washington Post, il pubblico si chiede perché stia “urlando” contro di lui. Le altre autorità femminili molto odiate sono le insegnanti, e secondo il giornalista anticlintoniano Matthew Continetti del Washington Free Beacon, Hillary ricorda “quella professoressa del liceo che non sopportavi, che ti poteva danneggiare, ma della quale continuavi a ridacchiare quando si girava”. Le donne sono inclini a vedere altre donne potenti come non abbastanza femminili, fredde, non emozionali e non materne. Quando Hillary ha avuto il magone ed è stata sbeffeggiata per aver pianto – “Hillary perde acqua” – prima delle primarie del 2008 in New Hampshire che ci si aspettava avrebbe perso, ha guadagnato una montagna di voti femminili.
Per mesi, però, Clinton e Trump non sono mai stati nello stesso posto, nella stessa stanza. Per tutta la primavera e l’estate hanno recitato il loro dramma in teatri diversi. La principale, se non l’unica, fotografia di loro due insieme è stata scattata al matrimonio di Trump (con Melania, nel 2005) quando, lui si vantò di aver corrotto i Clinton per convincerli a venire. Il momento del primo scontro è arrivato nel primo dibattito, il 26 settembre. Questa volta i due sarebbero stati sullo stesso palco, da soli – sempre che Trump si fosse presentato, non avesse chiesto un compenso mostruoso per la sua presenza o non avesse denunciato il moderatore, tutte cose che ha minacciato.
Le due settimane prima del primo dibattito sono state dure per i sostenitori di Clinton. E’ scesa nei sondaggi per settimane, mentre l’occhiuto team di Trump riusciva a tenerlo più o meno concentrato sulla strategia. Basta l’analisi online dei sondaggi fatta da Nate Silver. Per tutto settembre, Clinton e Trump sono stati quasi sempre alla pari o lui era avanti. Nel frattempo lui ha pungolato e attaccato lei in absentia, come debole e pigra, e poi malata e stressata. E, con tempismo perfetto, Clinton si è presa la polmonite. Di solito Hillary sembra instancabile. Ha volato quasi un milione di miglia come segretario di stato, gestendo il jet lag e sviluppando la capacità di dormire ovunque e in ogni momento. Ma eccola, a tossire e a inciampare, e a prendersi qualche giorno di pausa. Anche i democratici hanno iniziato a sentirsi male; nel New Yorker, una vignetta di David Sipress mostrava un uomo trasandato e nel panico a cui il dottore diceva: “Ti do qualcosa per la polmonite di Hillary”. Su Twitter, si scherzava sul fatto che Nate Silver stesse prendendo lo Xanax.
Nei giorni appena prima del dibattito, mentre Hillary riposava a casa, molti democratici di alto livello – Bill Clinton, Joe Biden, Barack e Michelle Obama e il candidato vicepresidente, il meno divisivo Tim Kaine – si sono affannati a sostituirla ai comizi. Ma sapevamo che non sarebbe bastato; doveva affrontare il mostro da sola. Come ha scritto in una column solenne Amy Davidson, analista politica per il New Yorker, il giorno stesso: “Nessun surrogato può fare questo per lei. Lei adesso deve calcare per davvero e pubblicamente il suo palco”. Può farlo? Clinton ha esperienza nei dibattiti, ma Trump è un bullo con altrettanta esperienza. Il dibattito incombeva come una giostra medievale.
E poi è iniziato. Trump tirava su con il naso e aveva il volto cereo, era aggressivo e interrompeva, ma stupido e incoerente, e si faceva spesso mettere in trappola come un orso da circo. E dal momento in cui lei si è rivolta a lui chiamandolo solo “Donald”, Hillary è risultata fresca come una margherita, scherzosa e rilassata, e lo ha combattuto con energia e fiducia; ha spiegato le sue politiche sull’aumento del salario minimo, sulla maternità pagata, sull’eguaglianza nel salario tra maschi e femmine, su una tassazione più equa, sull’energia pulita, sul commercio internazionale, su un’istruzione universitaria senza debiti, sulla razza, la riforma della giustizia criminale, la polizia e il controllo delle armi. Ha denunciato la sua elusione fiscale e il trattamento che riserva alle donne. La sua vittoria è stata evidente sia per i commentatori televisivi sia per tutti i sondaggi. Solo Trump ha detto di aver vinto. E’ stato il momento di svolta della campagna.
E così il linguaggio ha iniziato a cambiare, e i sondaggi della Clinton a crescere. Anche nella stampa, la trita descrizione di Clinton come “piena di difetti” ha ceduto, e l’intelligenza, il coraggio, la calma e la pratica sicura del governo hanno ricevuto un’attenzione quasi a sorpresa.
Le due settimane prima del secondo dibattito del 9 ottobre sono state più facili per i democratici. Trump era ferito dalla pubblicazione dei suoi dati fiscali, e con la pubblicazione delle sue registrazioni “da spogliatoio” è diventato materia da barzelletta sporca. Hillary sarebbe arrivata al dibattito indossando una cintura di castità per proteggersi? Trump avrebbe ingollato le Tic-Tac? Poi, la sera del dibattito a St Louis, si è saputo che avrebbe portato con sé tre delle donne che avevano accusato Bill Clinton di molestie sessuali. L’idea è stata del marito di sua figlia Ivanka, e Trump ha cercato di far sedere le donne nel palco riservato alla sua famiglia. I gestori del dibattito hanno rifiutato. Ma è stata una cosa seria.
Hillary si è comportata bene durante il dibattito, ma è sembrata sulla difensiva, un’impressione che Trump ha enfatizzato stalkerandola mentre parlava, muovendosi dietro di lei in maniera deliberata e minacciosa e il più vicino possibile, sbuffando accigliato. L’ex leader dell’Ukip, Nigel Farage, lo ha paragonato a un gorilla, e per lui era un complimento. La maggior parte degli spettatori, soprattutto le donne, lo ha visto come uno stalker. Danny Elfman ha messo una colonna sonora da film dell’orrore sotto le mosse di Trump e il “Saturday Night Live” ha canzonato Trump come lo squalo in “Lo Squalo”. Hillary ha vinto ancora una volta i sondaggi post dibattito, e ancora una volta Trump ha declamato vittoria per se stesso, accusando Hillary di barare usando delle droghe che aumentano le energie.
Nel terzo dibattito, un’Hillary rifinita, preparata e chiara ha dominato un Trump che tentava disperatamente di sembrare presidenziale. E’ stata costretta a schivare qualche domanda sulla Fondazione Clinton, ma quando Trump ha detto ghignando che avrebbe tenuto il paese “nella suspence” sul fatto di accettare o no il risultato delle elezioni, e inoltre ha interrotto la sua avversaria definendola “Such a nasty woman!”, il verdetto sulla vittoria di Clinton è stato chiaro.
Nel frattempo, il tema dei pregiudizi di genere, della misoginia e del sessismo ha continuato a dominare i media. Il numero di articoli su questo, molti scritti da uomini, si è moltiplicato. Il modo in cui i politici repubblicani parlano di molestie sessuali e di violenze sessuali è stato messo sotto osservazione, e Michelle Obama ha fatto un discorso appassionante in cui denunciava il disprezzo che Trump nutre per le donne. Trump è stato danneggiato molto mentre una processione di donne si faceva avanti per accusarlo di molestie sessuali.
Soprattutto, Nate Silver ha guardato con attenzione alle divisioni di genere nell’elettorato e ha pubblicato online un set di grafici incredibili e rivelatori: se votassero solo gli uomini, Trump vincerebbe con 350 voti elettorali (ne sono necessari 270 per vincere l’elezione); ma se votassero solo le donne, Clinton vincerebbe con 480. “Se Trump perde le elezioni”, ha predetto Silver, “sarà perché le donne hanno votato contro di lui”. Per la prima volta dal 19esimo emendamento del 1920, in cui è stato approvato il suffragio femminile, le donne hanno il potere di cambiare il corso di un’elezione.
Eppure sembra passato molto tempo dalla convention nazionale dei democratici in luglio, quando Hillary fece appello alla futura generazione: “Se c’è qualche bambina là fuori che è rimasta alzata a guardare, a loro voglio dire: forse io diventerò la prima presidente donna, ma una di voi sarà la prossima”. In uno dei suoi spot elettorali, ragazze e madri leggono le lettere indirizzate alla candidata: “Le ragazze sono il meglio, i ragazzi fanno schifo”. “Mia figlia e io stiamo guardando e registrando Hillary – ha scritto una madre orgogliosa – e adesso lei crede che può diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti”.
Non ho tanta fiducia nelle ragazze che sperano di diventare presidente in un futuro prossimo. Anche se Hillary Clinton vince, guardarla combattere questa campagna feroce potrebbe convincere anche la più entusiasta fra le bambine che sarebbe molto più saggio diventare una contabile. Se perde, le conseguenze saranno inimmaginabili. Ma quest’anno non è stato una “convergenza dei due”. Donald Trump non è diventato candidato per caso. Sapeva che avrebbe dovuto correre contro Hillary, e, come ha notato di recente Rebecca Trainster su Vox, lei “lo ha fatto emergere perché lui rappresenta perfettamente la resistenza al progresso fatto (dai Clinton)”. E’ stato perfetto, dunque, che proprio l’estremismo e la sventatezza di Trump lo abbiano portato a giocare la carta della questione femminile, a metterla sul tavolo, e abbiano rivelato Hillary come una candidata coraggiosa e, sì, dinamica. Una candidata che merita di vincere.
Questo articolo è apparso sul numero del 28 ottobre del Times Literary Supplement con il titolo “Pilloried Clinton”
Elaine Showalter/Times Literary Supplement/News Syndication