Trump o Hillary, ecco i dossier asiatici sul tavolo dello Studio Ovale
Una delle prime questioni di politica estera che dovrà affrontare il prossimo presidente americano è l’Asia, il continente che, negli otto anni di politica obamiana, è cambiato radicalmente. Resta poco, ormai, di quel “pivot to Asia” annunciato dall’allora segretario di stato Hillary Clinton. Ecco quindi le questioni asiatiche che saranno sul tavolo della Studio Ovale domani:
Con una mossa a sorpresa, ieri la Cina ha defenestrato il suo ministro delle Finanze, Lou Jiwei, un riformatore molto apprezzato a livello internazionale. Lou sarà sostituito da Xiao Jie, burocrate fedelissimo del presidente Xi Jinping. Dalla fine della riunione annuale del Partito comunista dello scorso mese, in cui è stato nominato “nucleo” della leadership, Xi non ha fatto che rafforzare e accentrare il suo potere. Lou è solo il più in vista di una lunga serie di funzionari sostituiti nelle scorse settimane con dei fedelissimi del presidente. Ieri il Parlamento cinese ha approvato una nuova legge sulla cybersicurezza che potrebbe mettere in pericolo i segreti industriali delle società straniere che lavorano in Cina, e contro cui tutto l’occidente ha fatto lobby per più di un anno. A Hong Kong, ex colonia britannica, sempre ieri il governo ha deciso di usare la mano dura contro due deputati ribelli, ignorando l’autonomia della città. Il prossimo presidente americano dovrà gestire una Cina più assertiva non solo a livello strategico-militare ma anche economico. E lo spettacolo desolante offerto dalla campagna elettorale tra Clinton e Trump ha dato molti argomenti al Partito sulle falle strutturali della democrazia alla occidentale.
L’effetto Duterte sulle Filippine spiega bene cosa succede quando Washington pecca di presunzione. Per anni la fedeltà dell’ex colonia americana è stata data per scontata – a fronte di grossi investimenti sul territorio. Ma i veri problemi – la criminalità, la povertà, il terrorismo – hanno aperto la strada a un presidente forte e autoritario, che ha deciso di cambiare rotta e spostarsi verso Pechino. Questo influisce sulla tenuta delle posizioni americane nel Mar cinese orientale e nel Mar cinese meridionale, dove l’assertività cinese (appoggiata dalla Russia) prosegue pressoché indisturbata in uno dei luoghi più ricchi di risorse del globo. Thailandia, Malaysia e Indonesia – e fuori dal quadrante, il poverissimo Bangladesh – sono base di numerosi gruppi terroristici islamici, tra un decennio la guerra al Califfato potrebbe essere più importante lì che in medio oriente.
La Corea del sud sta vivendo in queste settimane la peggiore crisi politica della sua storia. Una crisi endemica, che è destinata a trasformare la società del secondo alleato americano nel Pacifico. Seul, per Washington, non solo è un baluardo contro l’assertività cinese ma è anche il fronte “occidentale” contro la Corea del nord. Pyongyang negli ultimi otto anni si è armata fino ai denti, ha più che raddoppiato il suo arsenale di missili balistici e di ordigni nucleari, e nonostante l’influenza americana al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Kim Jong-un è un leader sempre più forte. In tutto questo, il Giappone resta fedele all’America, ma il sogno di Shinzo Abe è di far tornare il Sol levante a essere potenza indipendente ed egemone nel Pacifico. In questo Abe e il leader indiano, Narendra Modi, sono simili e hanno un comune nemico: la Cina. Per questo venerdì sigleranno un accordo nucleare che autorizzerà Tokyo a vendere tecnologie atomiche a Nuova Delhi. Sotto il naso dell’America.