Tutte le incertezze per l'economia americana (e mondiale) dopo il voto
Milano. Molte cose sono incerte sul voto di oggi, una è invece sicura, se dovesse vincere Trump sarebbe un disastro per l'economia, americana e mondiale. L’impatto immediate sarebbe fenomenale: secondo Justin Wolfers della University of Michigan e Eric Zitzewitz di Dartmouth College, con la vittoria dell’uomo del parrucchino Wall Street, Londra e le borse asiatiche perderebbero il 10-15 per cento e il peso messicano crollerebbe del 25 per cento. Perché una presidenza del tycoon newyorkese, indipendentemente da tutto il resto (con quale maggioranza al Congresso, che Segretario al Tesoro, quali procedimenti giudiziari) genererebbe un lungo periodo di avversione al rischio. Tre elementi sono particolarmente critici. La Trumpnomics, con i suoi tagli nelle aliquote e aumento delle spese, allargherebbe di molto il deficit fiscale e, secondo il Committee for a Responsible Federal Budget, il debito pubblico passerebbe dal 77 per cento al 105 per cento del pil.
The Donald ovviamente sostiene che le sue ricette favorirebbero l’attività economica, ma in realtà la semplice stabilizzazione del debito al livello attuale richiede dieci anni di crescita al 3,5% – ciò che nessuno considera possibile. In più il candidato repubblicano non sembra molto interessato all’indipendenza della Federal Reserve, bastione della bassa inflazione. Ha criticato pesantemente Janet Yellen e avrebbe la possibilità di nominare suoi alleati nel Board of Governors, dove già oggi due posti sono vacanti. Infine, ha un’agenda devastante di politica economica internazionale. Minaccia di ripudiare il North America Free Trade Agreement (Nafta) e di imporre dazi del 45 per cento sull’import dalla Cina, in ritorsione della presunta manipolazione del renminbi – decisioni che ha il potere esecutivo di assumere. Ci perderebbero in primis gli americani più poveri che finirebbero per pagare di più per i prodotti Made in China che rappresentano una parte importante del loro carrello della spesa. E i cinesi, dato che il loro export negli USA pesa per poco meno del 4 per cento del pil.
Se decidessero a loro volta di rendere pan per focaccia a Trump, il Petersen Institute prevede una recessione in America a partire dal 2018 e un veloce aumento della disoccupazione. Ovviamente con meno soldi disponibili i cinesi spenderebbero meno anche per macchinari, vini e abbigliamento italiani. Non c’è bisogno di aggiungere che per i vari accordi di libero scambio le prospettive sarebbero nere e che Trump non farebbe quasi nulla sul fronte dell’ambiente e del cambiamento climatico.
Se invece vincesse Hillary Clinton, ci sarebbe maggiore continuità con le politiche economiche dell’amministrazione uscente. Per prevedere quanta, bisognerebbe però sapere anche come andranno le elezioni del Senato e soprattutto della Camera dei Rappresentanti. Se i democratici riuscissero a controllare entrambe, peraltro scenario abbastanza improbabile, la nuova inquiline della Casa Bianca potrebbe concedere molta influenza a figure della sinistra del partito come la senatrice Elizabeth Warren. E allora ci potrebbe essere una stretta sulla regolamentazione dei mercati finanziari, molta cautela nel ratificare il Tppa e negoziare il Ttip, accelerazione sul fronte dell’Obamacare, e un sistema fiscale più progressivo e con meno maglie in cui i ricchi e le grandi società riescono sempre ad infilarsi.
Se però la presidentessa dovesse confrontarsi con un Congresso diviso, o magari ancora sotto il totale controllo del Gran Old Party (o di quello che resterà in piedi dei repubblicani dopo il verdetto di oggi), allora si aprono scenari complessi. In economia la Clinton ha assunto posizioni abbastanza liberiste, leggermente più caute del marito, ma sicuramente non più a sinistra che Obama. Avrebbe insomma la credibilità per patteggiare con i repubblicani, che però non perderanno un attimo a iniziare procedure per delegittimarla – non è inverosimile immaginare che cercheranno di lanciare procedure di impeachment. E tutto ciò allontanerebbe la prospettiva di avviare quel percorso di cambiamento di cui l’America (e il resto dell’Occidente) ha bisogno per combattere l’aumento delle diseguaglianze di reddito e ricchezza e della precarietà che è alla base dei trionfi dei vari populismi del 2016.
Lo spettro di un nuovo choc come la Brexit tiene insomma svegli i mercati. Il risveglio domani potrebbe essere ben più doloroso che in giugno, perché a Washington l’incertezza sull’avvenire è persino superiore e scarsa la capacità di costruire scenari di prezzo. Un presidente Trump, possibilità che al momento appare meno probabile ma non remota, condurrebbe l’economia mondiale verso il baratro e ovviamente a farne le spese per primi sarebbero gli anelli più deboli – tra cui l’Italia e le sue banche.
Andrea Goldstein è managing director di Nomisma