Viaggio nella politica della nostalgia di Trump (e non solo)
New York. Il libro più importante per capire Trump non parla di Trump. Non lo cita nemmeno. Racconta i padri naturali della sua forma mentale, i fomentatori del suo credo senza ideologia, traccia la condizione esistenziale di chi si cerca il futuro dietro le spalle invece che davanti agli occhi. Lo ha scritto Mark Lilla, storico della Columbia con una predilezione scientifica per le sacche di resistenza al corso della storia, e s’intitola “The Shipwrecked Mind” (New York Review of Books). Si tratta di una raccolta di saggi sulla mente reazionaria, quella che ha interiorizzato la condizione del naufragio e ne ha fatto un assetto, una dimensione del pensare e del vivere. In “The Reckless Mind”, la mente spericolata e incosciente, Lilla aveva indagato le tendenze totalitarie del Ventesimo secolo, quello delle ideologie, qui indaga le forze reazionarie che spopolano nel Ventunesimo secolo, quello delle nostalgie. La speranza è un fossile del discorso politico contemporaneo. L’ultimo esemplare è stato avvistato dalle parti della campagna elettorale di Obama nel 2008, che alla velocità con cui si muove la storia è un lontano pleistocene con qualche vaghissimo collegamento con l’oggi. La speranza in questa campagna elettorale è stata rimpiazzata con il suo doppio negativo, la nostalgia, facendoci scoprire che Kierkegaard aveva ragione soltanto in parte quando diceva che la “possibilità non delude mai”: per chi è dominato dalla paura la possibilità è l’anticamera dell’inferno, non del paradiso. Ogni svolta è il preludio di una tragedia che peggiora la condizione esistente.
Mark Lilla (foto di Youtube)
Ciò che non può mai deludere è l’appello a un passato mitizzato, un feticcio potente per chi vive immerso dentro quello che Lilla chiama “uno stato di rivoluzione permanente”. I cambiamenti tecnologici, la fluidità dei rapporti umani, i cambi repentini di contesto, mentalità, affettività, la capacità di concentrazione che si riduce, le identità social che si sovrappongono, la corsa a perdifiato verso le promesse transumane della singolarità: ogni azione in questa fase della post modernità contiene il germe della rivoluzione e la sua inevitabilità. Nella sala conferenza della Russell Sage Foundation, una townhouse dell’Upper East Side che ogni anno accoglie una manciata di accademici, lo storico spiega al Foglio che è stata la rivoluzione francese a trasformare il carattere rivoluzionario della storia in un destino ineluttabile: “Si è affermata allora l’idea cosciente che il processo che la rivoluzione aveva avviato non poteva essere fermato, era parte strutturale dell’idea stessa di storia”.
Il reazionario, quello che cioè si opponeva radicalmente a questa concezione, è stato automaticamente squalificato dal dibattito, è stato associato alla tradizione del conservatorismo per poter meglio bastonare gli oppositori politici, e il termine è diventato un generico peggiorativo: “Chiunque era critico nei confronti di questa forza che spingeva la storia verso nuovi orizzonti rivoluzionari era automaticamente marchiato con questo insulto”. Questo stabilisce innanzitutto che il reazionario, come il rivoluzionario, è una figura essenzialmente moderna: non ci sono forze reazionarie prima della modernità perché non esiste una concezione rivoluzionaria della storia alla quale opporsi. L’altra ambiguità che Lilla chiarisce è che il reazionario non è un conservatore. I conservatori “hanno un’idea della storia che non è statica, non si appellano al passato come a un mito granitico e irripetibile, mentre i reazionari postulano un’antichità mitica che è stata rovinata da qualche forza spuria e straniera, che quasi sempre coincide con l’élite intellettuale, e va riportata in vita con una rottura decisa quanto quella che verrebbe da una rivoluzione. Il passato mitico che Trump evoca con quel passatista “again”, la parola più potente del suo motto mutuato da Reagan, rimanda all’America bianca, protestante e nazionalista degli anni Cinquanta: “How lame”, che noia, dice Lilla, sottolineando la pochezza delle immagini nostalgiche con cui traffica Trump. Non promette la resurrezione dell’impero romano né il ritorno al “christendom”, l’impero cristiano universalista, ma una piccola regressione dietro l’angolo della storia, verso un’èra di vaga prosperità e coesione sociale i cui limiti sono facilmente documentabili.
Ma non è la qualità delle immagini proposte dai reazionari il merito del lavoro di Lilla, che va invece ricercato nella ricostruzione di una mentalità e dei suoi apripista ideologici, da Eric Voegelin al teologo Franz Rosenzweig e a Leo Strauss, che hanno portato in America idee oscure e apocalittiche che avevano attinto nel pozzo della repubblica di Weimar. Chi giudica Trump un’anomalia, un baco del sistema, oppure un narcisista che ha trovato la chiave del linguaggio della comunicazione, un crasso populista nell’èra di Twitter, farebbe bene a leggere il libro di Lilla per afferrare la profondità di un fenomeno che non scomparirà dallo spazio mentale degli americani. Nemmeno se questa notte Hillary lo seppellirà sotto una valanga di voti. In quanto mente reazionaria, Trump è più grande di se stesso, l’ombra che proietta è più lunga e più oscura di una semplice stagione elettorale. “Il quadro reazionario ha due figure dominanti”, dice Lilla. “La prima è quella di Ulisse, l’uomo che tentando di ritornare a casa vuole ricostruire il passato. Lui lotta per tornare a casa perché sa che è possibile, Itaca è ancora là, e Penelope lo aspetta. Questo tipo di ricostruzione è quella messa in pratica dallo Stato islamico con la ricostruzione del Califfato: vogliono ricreare il passato così come l’hanno immaginato. Ci sono però situazioni storiche in cui il passato è inaccessibile, e questa è la figura di Enea. Troia è distrutta e lui costretto alla fuga. Cosa fa? Ricostruisce. E la ricostruzione ambisce a essere più bella, potente e duratura dell’originale. Questa è la logica del fascismo”.
Se si mettono sullo sfondo di questo schema le fiammate identitarie che a livello globale uniscono la Russia di Putin, il nazionalismo religioso di Modi, la furia fanatica del salafismo, le turbolenze europee, il fenomeno di Trump appare affratellato nel comune sentire reazionario. Soltanto che l’immaginario mitico che offre è scadente e i modi beceri, “perfettamente in linea con la mentalità della cospirazione degli anni Cinquanta”, aggiunge Lilla. Rimane il fatto che Trump va interpretato come forza trainante di una restaurazione, non come un novatore populista, e per giustificare la necessità di un ritorno al passato deve creare un clima di “paura artificiale”, come la definisce lo storico: “Un leader politico ha essenzialmente tre opzioni. Può dare risposte comprensibili a problemi reali, può dare risposte incomprensibili a problemi reali, oppure può dare risposte incomprensibili a problemi che non esistono. Questi ultimi hanno bisogno di esagerare e distorcere fino all’assurdo il calibro dei problemi e delle sofferenze, per poi porsi come risposta a una domanda che in realtà non si poneva”. Trump cade nell’ultima categoria, il distillato più puro della mente reazionaria.