Cultura americana e comunicazione azzeccata: due motivi per cui la vittoria di Trump non è una sorpresa assoluta
La sorpresa Trump non è assoluta per chi conosce la cultura americana e un po’ di comunicazione. Cominciamo dalla seconda. La terribile spirale del silenzio ha colpito ancora. I seguaci di Trump, additati come “deplorable” (miserabili), omofobi, xenofobi e chi più ne ha più ne metta” (Clinton), avrebbero dovuto dire ai media e ai sondaggisti – schierati al 96% con la Clinton! – per chi avrebbero votato? Molti non l’hanno detto e, come con Berlusconi in Italia, i sondaggi si sono dimostrati sbagliati del 3-4%; in molti Stati questo scarto è bastato per far pendere la bilancia a favore di Trump. Più in generale, dal punto di vista comunicativo, Trump ha introdotto una modalità iconica di fare campagna: emotivo e comunitario, indifferente al politically correct, sincero fino al ridicolo. La Clinton è rimasta sulla comunicazione standard dell’establishment, piena di parole dall’alto valore simbolico ma avvertite dall’inizio come insincere. Così i due hanno rappresentato anche semioticamente il loro mondo: lei quello dei simboli astratti, potenti ma spesso vuoti alla prova dei fatti pieni di necessari compromessi, lui quello della sincerità rozza e popolare. In risposta ai mille discorsi di analitico sconcerto della CNN della notte elettorale uno dello striminzito staff di Trump stamattina twittava: “non sentite anche voi l’America che canta?”. La differenza di segni e di tono è molto esplicativa. È l’era di segni meno sofisticati, ma forse più sinceri.
In secondo luogo, la cultura. Alcuni dei commentatori della notte sottolineavano che alla fine il messaggio di Trump era più forte dal punto di vista economico e che, come sempre, gli americani hanno votato solo con il portafogli. E’ un luogo comune solo parzialmente vero perché non conosce bene il profondo vincolo tra il valore del denaro, la religione, il potere, i valori della vita in una cultura che deriva dal calvinismo. Certo, i soldi sono importanti, ma solo perché sono il riflesso di un modo di interpretare la vita profondamente religioso. Nel bene e nel male, gli Stati Uniti differiscono dall’Europa per questa origine: il potere e l’economia, l’imprenditoria e i valori sociali sono avvertiti religiosamente anche da chi non ha convinzioni confessionali. Basta ricordare che nella Dichiarazione d’Indipendenza americana c’è scritto che gli uomini hanno diritto alla “ricerca della felicità”. In questa cultura le convinzioni e le azioni devono andare insieme molto di più che nella nostra segnata dallo scetticismo dell’illuminismo più ideologico.
Infatti, Trump ha rischiato di perdere solo quando è uscita la registrazione delle sue frasi sconce e la Clinton ha perso anche per le menzogne sulle email da Segretario di Stato. Si dirà che è moralismo e sicuramente lo è. Ma è parte di una cultura americana che vuole unità tra pensiero e azione, nel bene e nel male: nel moralismo atroce come nel senso religioso connesso ai ruoli pubblici, nel diritto di portare le armi come in quello di avere un mercato davvero libero; nella difesa dell’individualismo come in quella della vita. Gli americani hanno votato con il portafoglio ma anche con il cuore, e l’incredibile passione suscitata da queste elezioni in entrambi i campi lo dimostra. Trump con la sua comunicazione iconica ha saputo parlare all’anima religiosa dell’America profonda. Il suo hashtag degli ultimi giorni #draintheswamp (prosciuga il pantano) era un appello diretto a questa radice onesta, un po’ moralista, stufa di trucchi di potere e belle parole elitarie e presuntuose. Adesso non gli resta che farlo – prosciugare il pantano –, cosa su cui gli americani lo giudicheranno con la stessa severità con cui hanno punito gli otto anni di Obama e la ex-Segretaria di Stato.