Inizia la rivoluzione di Donald Trump
Alle 2.31, ora di New York, la Associated Press ha dichiarato ciò che per settimane e mesi ha oscillato fra l’impossibile e l’improbabile: Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Poco dopo è arrivata la chiamata di Hillary Clinton, una concessione privata dopo che il chairman della sua campagna, John Podesta, ha invitato il popolo accorso al Javits center ad andare a dormire, in modo che si potessero contare tutti i voti che separavano Hillary da una eventuale vittoria. Stava soltanto evitando alla candidata l’imbarazzo di una lancinante, devastante resa a caldo.
Il soffitto di vetro del centro congressi newyorchese, scelto apposta per valorizzare l’immagine della prima candidata donna che spezza le barriere, è rimasto intatto. Trump si è presentato sul palco dell’Hilton di Manhattan, dove aveva organizzato una serata sottotono a inviti selezionati, con uno sguardo che ancora non aveva indossato nella campagna elettorale, quello commosso di chi è investito di un compito più grande di lui.
A parte alcuni “tremendous” e “amazing” aggiunti a braccio, trasportato dalle emozioni, ha letto in modo ordinato sul teleprompter un messaggio di esaltazione del “movimento”, accompagnato da una presidenziale chiamata alla conciliazione nazionale, con tanto di “debito di gratitudine” nei confronti di Hillary, avversario duro e leale al quale ha concesso l’onore delle armi. L’ha perfino chiamata “secretary”, non “crooked”. Le iperboli della campagna, le stesse usate lungo quarant’anni di onorata e disonorata carriera, sono finite d’improvviso in soffitta, sostituite da intonazioni presidenziali che hanno fatto quasi presagire un’aria di normalizzazione.
Il suo caravanserraglio famigliare e politico, riunito sul palco dietro a una sfolgorante Melania e a un assonnato Barron, ha preso d’un tratto le sembianze di un gabinetto presidenziale, da Chris Christie al senatore Jeff Sessions. Reince Priebus, capo del Partito repubblicano che per mesi si è tenuto nell’intenibile posizione di uomo dell’establishment a servizio di un candidato anti-establishment, è stato invitato a dire una battuta sul palco, cosa che ha in qualche modo sancito l’inizio di un percorso di riconciliazione con il mainstream repubblicano. I prossimi giorni e settimane diranno se e a quali condizioni questo processo potrà cominciare.
All’inizio della serata elettorale la competitività di Trump negli swing states tradizionali come Ohio e Florida sembrava scritta nella trama normale dei territori in bilico. La conquista della North Carolina ha creato lo spazio per cucire un percorso verso la vittoria, ma è nella rust belt che è avvenuto lo sfondamento: Trump ha saccheggiato barbaramente i territori democratici di Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, è andato a prendersi l’Iowa e ha consolidato con ampi margini l’elettorato del sud. Se il divario del voto popolare è meno significativo rispetto ai numeri del collegio elettorale è perché negli stati a forte maggioranza repubblicana Hillary ha perso con margini inferiori rispetto alle previsioni. La sfiducia di Hillary si era capita da un tweet profetico che sapeva di sconfitta: “Questo team ha molto di cui essere fiero. Qualunque cosa accada stanotte, grazie di tutto”.
Ci sarà tempo per afferrare le ragioni della vittoria di Trump e per studiare la composizione dell’elettorato che gli ha concesso una vittoria monumentale, una rivoluzione copernicana che seppellisce con la più incredibile delle campagne il partito repubblicano dei Reagan e dei Bush, gli odiati globalisti che avevano obliterato il paradigma del nazionalismo in stile “America First”, ma nel frattempo si apre la riflessione che per primo ha inaugurato Paul Krugman, intuendo l’aria mefitica per la sua coscienza di liberal: “Non abbiamo capito il paese in cui viviamo”. Che l’èra di Trump abbia inizio.