L'illusione liberale rosolata al fuoco delle identità. La guerra dei mondi oltre Trump e Hillary
New York. Charles Taylor osserva con preoccupazione “l’avanzata del lato sbagliato della questione dell’identità”, dove per lato sbagliato intende il fronte che va da Donald Trump a Vladimir Putin passando per Marine Le Pen e Geert Wilders. E’ una coalizione trasversale ed eterogenea tenuta insieme da una comune concezione particolarista: “Assistiamo a una serie di battaglie nella società globale fra identità particolari, anguste e sospettose verso l’altro e un altro tipo di identità che trae beneficio dalla connessione con l’altro. Contrariamente a quanto pensano i fautori dell’individualismo liberale, la società democratica acuisce il bisogno di identità collettive, la gente ha bisogno di essere parte di qualcosa di più grande: il problema è ridefinire l’identità in modi che sono compatibili con l’apertura all’alterità”, dice al Foglio il filosofo canadese. 85 anni, professore emerito alla McGill University di Montréal, dove è stato allievo di Isaiah Berlin, Taylor si è occupato di psicologia comportamentista e filosofia delle religioni, di modernità e comunitarismo, di secolarizzazione e multiculturalismo, ha tentato di fare carriera politica e di indagare le condizioni del dialogo fra cattolicesimo e modernità, ma in realtà la sua è “l’opera di un monomaniaco” che per tutta la vita si è occupato di una cosa soltanto: l’indagine sull’uomo.
Il perno di “Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna” (Feltrinelli), il suo opus magnus, è che questo “animale che si autointerpreta” va colto nella sua dimensione storica, nella sua trama relazionale, nelle circostanze in cui è “gettato”, e anche oggi, di fronte alla deflagrazione della questione identitaria sullo scenario geopolitico, Taylor si sforza di inquadrare l’uomo “così com’è”, per utilizzare impropriamente un’espressione della scuola fenomenologica. E questo uomo “può essere osservato più compiutamente in uno schema antropologico e politico in cui l’apertura all’altro è possibile”, dice Taylor. Il filosofo non s’adagia sulla contrapposizione manichea e obamiana che divide la storia nella sponda giusta e in quella sbagliata, dove in fondo i giusti sono quelli che accettano lo schema del liberalismo e gli sbagliati tutti gli altri, ma naviga con cautela alla ricerca di una terza via, quella dell’identità dialogica, dove l’io scopre se stesso all’interno di una trama di relazioni.
“Dobbiamo cercare di capire perché invece sta avendo successo il paradigma dell’identità come ripiegamento, chiusura e contrapposizione. Sono certamente in atto forze storiche profondissime e difficili da indagare, che hanno a che fare con la condizione dell’uomo moderno, ma queste sono potenziate da ragioni di tipo economico. Nella rust belt o fra gli operai francesi ci sono moti di reazioni e malcontento che ci dicono che, fra le altre cose, l’occidente non ha fatto abbastanza per contrastare gli effetti della crisi finanziaria del 2008. Molti che hanno subìto gli effetti peggiori di quella crisi ora si sentono dimenticati, esclusi. Queste considerazioni impongono, a un primo livello, risposte di tipo politico, ma più in profondità c’è la questione della concezione della nostra identità, che è aperta e dialogica, oppure chiusa e autoreferenziale. Non ho dubbi su quale fra le visioni del mondo di cui Hillary Clinton e Donald Trump sono interpreti possa creare le condizioni per una concezione aperta dell’identità”.
Creare le condizioni: non significa affatto che la visione liberale e i suoi eroi politici, con le loro pretese di universalismo e neutralità, siano incarnazioni definitive di un ideale: “L’idea del progresso come destino ineluttabile è sempre stata un’illusione, e la democrazia è stata anche molto arrogante in questo: se c’è una cosa che questo momento politico mostra è che un sistema democratico non garantisce nemmeno la sua stessa sopravvivenza, figurarsi la sua affermazione come stadio finale della storia”. Taylor fa alcuni esempi dell’eccesso di fiducia accordata allo schema liberale e democratico: “Abbiamo delegato la formazione della nostra identità a meccanismi globali e impersonali che hanno mostrato parecchi effetti collaterali. Gli accordi commerciali internazionali, ad esempio, in linea di principio vanno nella direzione dell’apertura ma nei fatti avvantaggiano le grandi corporation. In modo analogo, l’idea della ‘mano invisibile’ e dell’autoregolamentazione dei mercati è molto pericolosa, ma Adam Smith lo sapeva bene, e nei suoi scritti è molto più cauto nel presentare le sue teorie di come lo rappresentiamo. Il mercato è una cosa buona che ha dato tanta prosperità, ma i giudizi morali delle persone devono essere la base della società, non il funzionamento, anche efficiente, di un meccanismo impersonale ”, dice Taylor, tornando, come sempre, sullo spartito antropologico: “Gli assoluti che il liberalismo vuole incarnare rivelano un’implicita concezione dell’uomo che è falsa e riduttiva: l’io è concepito come un agente astorico, pura capacità di azione e scelta, ma così le distinzioni fra persone si perdono”. Il mondo identitario dei Trump e dei Putin va letto dunque sullo sfondo della grande disillusione liberale: “Credere che un ordine liberale possa infine arrivare a riconciliare gli esseri umani è terribile”.
In mezzo a questa tensione fra universalismo liberale e frammentazione identitaria sta la chiesa cattolica, che secondo il cattolico Taylor è l’attore meglio equipaggiato per poter dire qualcosa di significativo. In che senso? “La chiesa può essere se stessa all’intero di qualunque schema politico. Significa che l’idea, che circola spesso, di un compromesso fra la chiesa e il liberalismo è un modo ingannevole di porre la questione: la chiesa non deve annacquarsi per dialogare. I papi della storia recente hanno interpretato con stili diversi questa concezione, e io sono un grande ammiratore di Francesco proprio perché invita i cristiani e il mondo a entrare in rapporto con l’altro, non come semplice avvicinamento compassionevole, ma per sottolineare la natura relazionale dell’identità”. Questo ha risvolti sia a livello sociale sia economico: “Sono contento, ad esempio, della ‘liberazione gay’, per un motivo semplice: ora tutti possiamo considerare le persone per quello che sono, con le loro scelte, i loro drammi. Prima non è che la questione non ci fosse, ma non la vedevamo, e credo che per i cristiani sia un gran bene poter vedere in faccia la realtà”, spiega Taylor. Secondo il filosofo, la categoria della sussidiarietà è infine la chiave del contributo storico della chiesa: “E’ uno strumento formidabile della saggezza della chiesa, particolarmente nel momento in cui sia la globalizzazione sia i nazionalismi mostrano tutti i loro limiti. L’idea di fondo della sussidiarietà è quella di mettere la persona nelle condizioni di agire moralmente”.
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