Ay ay ay che paura fa Trump dall'altro lato del Muro
Roma. Il presidente del Messico, Enrique Peña Nieto, ieri mattina ha convocato d’urgenza il suo gabinetto di governo. Da Los Pinos, la residenza presidenziale, gli addetti stampa hanno cercato di far passare la voce che si trattasse di un meeting previsto da tempo, ma la realtà è stata chiara fin da subito. Dopo aver assistito allo spoglio dei risultati delle elezioni negli Stati Uniti, Peña è stato costretto a convocare con urgenza i suoi ministri per trovare un modo per far fronte all’uragano Donald Trump. Nel continente americano, il vero paese sotto choc è il Messico. Gli Stati Uniti Trump l’hanno votato. In Canada un po’ si compiacciono del fatto che il sito dell’ufficio immigrazione sia andato in crash perché troppi americani si sono quanto meno informati su come scappare da un paese nel quale non si riconoscono più, e di essere rimasti l’unico santuario liberale di tutte le Americhe. Ma è dal Messico che tutto è nato. E’ il peso messicano, la valuta nazionale, che nel corso di tutta la campagna elettorale è rimbalzato su e giù come una palla di gomma seguendo l’andamento delle elezioni – e a essere stati lungimiranti avremmo dovuto notare che dall’inizio dell’anno il peso è calato di circa il 25 per cento, brutto segno per Hillary, mentre ha fatto un tonfo dell’otto per cento solo ieri e crollerà del 20 nei prossimi giorni, secondo le previsioni degli analisti. Il Messico, insomma, è stato il primo topos della campagna elettorale di Donald Trump, forse è rimasto il più forte di tutti, e adesso che contro ogni pronostico Trump ha vinto, molti messicani (oltre che milioni di latinos americani) temono che sarà da loro che tutti i fantasmi evocati dal repubblicano in questi mesi finiranno per riversarsi.
Il pensiero di tutti a Los Pinos, quando ormai la vittoria di Trump è diventata sicura, è certamente andato a quel confine, a quei 3.142 chilometri che l’allora candidato alle primarie repubblicane promise di coprire con un muro così alto che i messicani “spacciatori, criminali e violentatori” non sarebbero stati in grado di scavalcarlo, e per il quale tutti i messicani avrebbero pagato di tasca loro, come per espiare una grande colpa nazionale. Donald Trump non ha mai detto come intende costruire il muro né in che modo costringerà il Messico a pagare per esso, e infiniti studi hanno detto che il grande valico trumpiano sarà non solo quasi irrealizzabile, ma anche inutile – i messicani, al giorno d’oggi, arrivano in America in aereo. Ma nel linguaggio del candidato in arancione il Muro è diventato un feticcio, e al di là del lungo confine sud un’ossessione che ha rasentato l’isteria.
Questa primavera Peña Nieto, in due occasioni differenti e durante eventi di grande rilievo internazionale, ha paragonato Trump a Hitler e Mussolini. In seguito Peña ha incontrato Trump a Città del Messico, in quello che è stato l’unico viaggio all’estero del candidato repubblicano. Avrebbe dovuto essere uno sfoggio di equanimità presidenziale: Peña aveva invitato sia Hillary sia Trump, ma la prima rifiutò, e così l’unico ad apparire presidenziale fu il repubblicano che insulta i messicani. Quell’invito è costato a Peña un prezzo durissimo a livello politico, che il presidente non ha ancora smesso di scontare. Ma la rivolta anti trumpiana, in Messico, non si è mai fermata: un ex presidente, Vicente Fox, disse in diretta alla tv americana che lui non avrebbe pagato per quel “fucking wall”, un altro ex presidente, Felipe Calderón, ha lanciato moniti gravi, e ieri, alla notizia della vittoria di The Donald, tutta la politica messicana, quasi senza esclusioni, è insorta, alimentando un clima per molti versi isterico. Alcuni, come l’attivista Javier Sicilia, hanno detto che il mondo è destinato “alla disumanizzazione e alla distruzione”. Altri hanno cercato un approccio più costruttivo, come Margarita Zavala, politica di centrodestra ed ex first lady, secondo cui adesso il Messico deve prendere maggiori responsabilità nella gestione dei rapporti bilaterali con Washington.
Non si sa quali piani si siano congegnati nella riunione di gabinetto d’emergenza convocata da Peña. Il primo obiettivo, per ora, è tamponare la catastrofe economica che molti analisti si attendono se Trump dovesse mettere in atto le sue minacce al Messico, dall’eliminazione delle rimesse alla cancellazione dell’accordo di libero scambio Nafta. Il ministro delle Finanze si è presentato ieri ai giornalisti dicendo che l’applicazione delle riforme strutturali approvate dal governo dovrà essere velocizzata, ma anche che serviranno degli “aggiustamenti” per parare il colpo, segno che i messicani sanno che saranno loro i primi a essere interessati dall’eventuale uragano Trump.
Dopo un lungo silenzio, le congratulazioni di Peña Nieto al nuovo presidente americano sono arrivate ieri via Twitter. Peña ha fatto i complimenti a Trump, e ha scritto che “Messico e Stati Uniti sono amici e alleati che devono continuare a collaborare per la competitività e lo sviluppo dell’America del nord”. Da sempre, il Messico è abituato ad avere in Washington un alleato fidato e un vicino ingombrante. Gli americani hanno incitato per decenni la guerra al narcotraffico, con armi, intelligence e addestramento. Hanno sostenuto l’economia messicana nei momenti del bisogno e hanno approfittato della manodopera a basso costo che il paese poteva offrire. Gli economisti sono concordi nel dire che il Nafta ha favorito tanto l’economia americana quanto quella messicana, e delle due finora i contraenti del sud erano stati i più scettici. D’ora in poi il vicino americano rimarrà ingombrante, ma rischia di essere malevolo.