Farnesina calling
Le preoccupazioni generate sullo scacchiere internazionale dalla vittoria del candidato repubblicano Donald Trump alle presidenziali americane di ieri sono in larga misura esagerate, seppure comprensibili alla luce di quanto è accaduto durante una campagna elettorale a dir poco tempestosa. Il nuovo presidente giunge alla Casa Bianca forte di un mandato ampio, che dovrebbe dargli la forza necessaria a perseguire un disegno di riposizionamento del suo paese nel mondo che non nega ma amplifica le tendenze già affiorate nel corso degli otto anni in cui lo Studio ovale è stato occupato da Barack Obama.
Gli Stati Uniti dovrebbero passare dal leading from behind a una presenza ancora più leggera nei teatri di crisi, che potrebbe avere l’effetto di responsabilizzare ulteriormente il Vecchio continente. La candidata democratica Hillary Clinton, che aveva a lungo criticato Obama per essere stato eccessivamente prudente nel ricorrere alle armi, avrebbe rilanciato invece l’interventismo umanitario nel nome della cosiddetta responsibility to protect, con l’appoggio degli stessi neoconservatori che erano stati alle spalle della campagna intrapresa dal presidente George W. Bush per rovesciare Saddam Hussein e democratizzare l’intero medio oriente. Al di là del giudizio sulle ipotetiche scelte, saremmo stati chiamati a prove difficili e molto divisive per le nostre opinioni pubbliche. Per favorire l’uscita dal caos che ha caratterizzato gli ultimi anni, Trump cercherà partner tra gli alleati tradizionali dell’America, ma anche tra quelli che attualmente vengono considerati come i suoi rinascenti rivali, con particolare riguardo alla Russia.
Il tycoon è uomo di business dal gran senso pragmatico. Sa che la Federazione russa è uno stato che genera un reddito nazionale inferiore a quello del nostro paese e non è credibile come minaccia alla pace planetaria, a meno che non sia messa alle strette. L’apertura che Putin gli offre già adesso è un segnale di speranza, anche se Trump attenderà a raccoglierlo, perché è un negoziatore duro. E se accordo ci sarà, è certo che verrà raggiunto nei termini più convenienti agli Stati Uniti. Ma con soddisfazione della controparte, che dovrà essere convinta a collaborare alla realizzazione di un progetto di stabilizzazione di vaste proporzioni. L’Alleanza atlantica dovrebbe alleggerire la propria presenza alle frontiere russe, una volta perfezionata l’intesa, per concentrarsi sulle sfide provenienti da sud. La lotta al terrorismo transnazionale di matrice jihadista dovrebbe essere rilanciata come piattaforma e cornice della nuova cooperazione. Si tratta di uno scenario che deluderà certamente baltici, polacchi, norvegesi e svedesi, i veri perdenti di questa elezione, ma che permetterà all’Italia di ritagliarsi un ruolo migliore, se solo se ne renderà conto e saprà cogliere tutte le opportunità che la nuova situazione dischiude.
Come italiani, potremmo essere persino stati fortunati. Senza colpo ferire, gli elettori britannici hanno decretato l’uscita del loro paese dall’Unione europea, facendo dell’Italia la candidata naturale a sostituire il Regno Unito nel suo tradizionale ruolo di vettore degli interessi e delle posizioni americane in Europa. Ora la sorte ci regala un presidente statunitense che, a certe condizioni, potrebbe valorizzare la funzione di ponte dell’Italia senza pretendere pesanti contropartite in cambio. Hillary ci avrebbe chiesto di ridurre significativamente i nostri rapporti con Mosca, obbligandoci a scelte sgradite a gran parte del Parlamento, che ha più volte chiesto al nostro governo di agire per rimuovere le sanzioni contro la Russia e ha mugugnato di fronte alla richiesta della Nato di inviare i nostri soldati in Lettonia. Non è Pratica di Mare, ma di più. Abbiamo a lungo avuto bisogno di sostegni esterni per compensare la nostra inferiorità rispetto ai pesi massimi in Europa. L’America di Trump può darci la stampella che ci serve, senza esigere la nostra rinuncia a Mosca. E saremo più liberi, perché cambieranno anche le modalità di esercizio del potere rispetto a quelle che si annunciavano, di cui abbiamo avuto un assaggio la scorsa settimana, quando abbiamo appreso che lo staff della Clinton nel 2011 operava per orientare in senso liberal le scelte del Vaticano.