La Libia, la Siria e Trump
tre posizioni molto gradite alla Russia e al partner locale Assad. Cosa cambia.
Roma. Una fonte del Foglio a Tripoli, in Libia, rivela che il governo del premier designato Fayez al Serraj era in contatto con il candidato democratico alla presidenza Hillary Clinton e che l’ex segretario di stato aveva chiesto ai tripolini di resistere alle pressioni del loro rivale della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. Il messaggio di Clinton a Serraj era: non indietreggiare, non scendere a compromessi, perché quando sarò presidente l’America sarà al tuo fianco, eventualmente anche con la sua forza militare, proprio come è stata al tuo fianco durante l’offensiva ancora non conclusa contro lo Stato islamico a Sirte. Dopo il voto che ha eletto Donald Trump, questi primi abboccamenti e queste rassicurazioni da parte di Clinton non hanno più senso. Trump non ha mai dato indicazioni chiare a proposito del dossier libico, ma ha avuto parole di apprezzamento per il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi – che ha ricambiato e ieri è stato il primo leader arabo a congratularsi con Trump. Sisi è il grande sponsor di Haftar e con lui condivide il lungo confine est tra Libia ed Egitto. La sorpresa elettorale in America potrebbe quindi diventare anche un cambio di fronte degli americani in Libia e l’Amministrazione Trump potrebbe non essere più uno sponsor del governo Serraj, come lo era l’Amministrazione Obama assieme al governo italiano di Matteo Renzi.
Il lato del generale Haftar, dominus di Bengasi, è anche il lato scelto dalla Russia per prendere posizione in Libia in opposizione all’America (di prima del voto, s’intende). Come in altri teatri d’operazione, anche in Libia l’Amministrazione Trump e la Russia di Vladimir Putin potrebbero trovarsi presto dalla stessa parte, o perlomeno non contrapposti.
Il presidente Trump dovrà anche prendere una posizione sul dossier siriano, che è stato citato molto poco durante la campagna elettorale. Aron Lund, uno dei migliori esperti di Siria in circolazione, a ottobre ha interpellato una moltitudine di ex ufficiali della Casa Bianca, del dipartimento di Stato e del Pentagono per capire come entrambi i candidati alle presidenziali americane stessero approcciando la questione e ha scritto due brevi paper per il think tank Carnegie.
In generale Trump asseconda l’inclinazione popolare a ridurre l’impegno degli Stati Uniti all’estero – secondo un sondaggio Pew fatto a maggio il 41 per cento degli americani pensa che l’America faccia troppo per risolvere problemi al di fuori dei propri confini, contro un 27 per cento che pensa faccia troppo poco. E’ una posizione condivisa con entrambi i suoi predecessori, George W. Bush e Barack Obama, che durante la campagna elettorale hanno annunciato una politica isolazionista e poi però, costretti dalle circostanze, si sono dovuti rimangiare la promessa. Trump non dice “isolazionismo”, ma rende il concetto con l’espressione: “America First”. Inoltre non è per nulla d’accordo con l’idea di un regime change a Damasco per rimpiazzare il presidente attuale Bashar el Assad con qualcuno che possa cominciare una stagione di riconciliazione con l’opposizione armata non jihadista. Infine, non c’è alcuna apertura di credito verso i ribelli, che non sono tutti jihadisti, ma vengono trattati come tali: “Non sappiamo chi sono”, ha detto Trump a un comizio. Queste tre linee politiche, isolazionismo, no al regime change e no ai ribelli, espresse durante la campagna elettorale, hanno vinto di nuovo il favore e il sostegno della Russia.
Durante il dibattito televisivo tra vicepresidenti che si è tenuto il 4 ottobre il vice di Trump, Mike Pence, ha detto di essere a favore di una “safe zone” in Siria protetta dall’aviazione americana, e che “le provocazioni di Putin devono essere affrontate con la forza” e anche che se Mosca “continua ad appoggiare gli attacchi barbarici contro Aleppo, allora le Nazioni Unite dovrebbero essere pronte a colpire obiettivi militari del regime di Assad”. Dopo il dibattito Pence ha continuato a dire che lui e Trump erano d’accordo sulla necessità per l’America di essere coinvolta nella creazione di una zona sicura dentro la Siria – il che porterebbe a una contrapposizione inevitabile con Assad e con Putin – ma il 9 ottobre Trump lo ha contraddetto: “Non ci siamo parlati e non sono d’accordo”, ha detto.