La prova del nove di Trump. Con uno staff di livello, può dimostrare di saper governare davvero
Alla fine, quello che nessuno considerava possibile è accaduto per davvero: Donald Trump è il 45esimo presidente degli Stati Uniti. Il colpo di scena finale, che ha reso il nostro risveglio ieri mattina piuttosto agitato, è stato il momento più sorprendente di una delle campagne elettorali più brutte di sempre nella storia americana. Una campagna combattuta troppo poco sui contenuti e quasi esclusivamente sulle polemiche, i pettegolezzi e le dichiarazioni grevi e triviali che si sono però rivelate in grado di rastrellare i voti decisivi per una vittoria che ha indubbiamente una portata storica.
Il proverbiale pragmatismo degli anglosassoni insegna che, quando c’è un problema, non possiamo fare altro che “live with it” e cercare di affrontarlo nel modo migliore. Inutile ormai recriminare su ciò che sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate diversamente e se i Democratici avessero tenuto in maggiore considerazione le istanze portate avanti da Bernie Sanders e dal suo elettorato. Trump ormai ha vinto, e i paragoni con la “Brexit” non sono calzanti. Questa volta non ci sarà infatti nessuna Corte Suprema che potrà rimettere il giudizio in mano al Congresso. Terminata la lunga notte elettorale, cerchiamo dunque di fare lo stesso e di pensare a quali potranno essere i primi passi di Donald Trump una volta che avrà messo finalmente piede alla Casa Bianca.
Partiamo dal discorso successivo alla chiusura dello spoglio elettorale, nel quale il nuovo presidente eletto ha inviato – fortunatamente – alcuni segnali positivi e concilianti nei confronti di quelli che erano stati i suoi bersagli preferiti durante la campagna elettorale. E’ curioso notare anzitutto come Trump abbia riconosciuto a Hillary Clinton l’onore delle armi, elogiandola addirittura per il “servizio reso al paese”. Un notevole passo di distensione, se pensiamo alle battute sessiste di cui la candidata democratica era stata oggetto: da “crooked Hillary” si è passati al suo elogio, un atto dovuto ma non scontato al termine di una campagna così aspra.
Una volta abbassati i toni pre-elettorali, arriverà finalmente il momento di governare e dimostrare alla prova dei fatti le proprie capacità, tra cui quella di mettere in atto le promesse effettuate. Siamo certi che Trump è perfettamente consapevole che i suoi messaggi semplici e monodimensionali, diretti alla pancia degli elettori, gli hanno permesso di vincere con un così ampio margine ma andranno ora tradotti in politiche reali, molto più complesse e che dovranno fare i conti con una realtà caratterizzata da numerosi vincoli esterni. Ecco perché la prima cosa da fare per il nuovo presidente sarà quella di dotarsi di uno staff di primo livello, competente e già introdotto nella macchina amministrativa che è a lui invece del tutto sconosciuta. Il vicepresidente scelto per far parte del ticket presidenziale, Mike Pence, è il governatore uscente dell’Indiana e, nonostante non si tratti di una figura di primo piano dell’establishment repubblicano, è sicuramente un uomo delle istituzioni su cui Trump potrà contare per la gestione della macchina amministrativa. Aspettiamoci anche che un altro incarico di peso nella futura compagine governativa sia assegnato a Chris Christie, governatore del New Jersey cui il miliardario newyorchese ha affidato la gestione del suo transition team.
La scelta dei collaboratori giusti sarà fondamentale anche per fare i conti con un Partito Repubblicano che, nonostante il “cappotto” messo a segno sia alla Camera che al Senato, potrebbe cercare di mettergli i bastoni fra le ruote. Sembra paradossale, ma una vittoria dalle proporzioni così inaspettatamente ampie rischia di essere un ostacolo, più che un aiuto per Trump, che dovrà scontare la sua condizione di outsider riuscito a sbaragliare tutti i rivali interni al Gop. Al di là delle opinioni personali di ciascuno, non si può negare che Trump abbia dimostrato di essere in questo un vero “cavallo di razza”; nei prossimi due anni (cioè almeno fino alle elezioni di medio termine) avrà però il compito di riunificare il partito attorno alla sua figura, se vorrà che la sua azione sia efficace in un sistema istituzionale come quello statunitense additato universalmente come esempio di checks and balances.
Se pensiamo poi alle politiche concrete che il nuovo presidente dovrà mettere in atto, non possiamo certo ignorare il fatto che gli Usa sono già la prima economia mondiale e che sarà certamente nel suo interesse mantenere questo primato. Barack Obama ha avuto il merito di riuscire a riavviare da subito l’economia americana all’indomani della crisi e Trump, pur attraverso ricette differenti (la fattibilità del suo “choc” fiscale a beneficio delle imprese sarà tutto da dimostrare), non potrà fare altro che proseguire nel percorso di crescita duratura e sostenuta già tracciato.
Insomma, passato lo stupore per un esito largamente inatteso, ci sono diversi elementi per non essere troppo catastrofisti e per sperare con fiducia nella capacità di reazione di quella che resta comunque la principale democrazia liberale al mondo. Lo stesso sentimento di ottimismo dovrebbe essere condiviso dal nostro Paese: come abbiamo già argomentato su queste pagine nelle scorse settimane, nell’attuale fragilità del contesto europeo ancora squassato dalla “Brexit”, l’Italia potrà rappresentare un alleato stabile e affidabile, rafforzando la considerazione di cui godiamo presso gli Stati Uniti. Dopo otto anni con un Presidente “cool” come Obama, Trump non sarà probabilmente il successore ideale; tuttavia, dietro le considerazioni di facciata, Roma potrà davvero giocarsi le sue carte per iniziare a contare di più a livello internazionale.
Trump è sempre riuscito in passato a risorgere con successo dalle sue bancarotte immobiliari. Speriamo che, anche questa volta, possa aiutare gli Usa a risorgere dalle macerie politiche e sociali che hanno caratterizzato questa campagna presidenziale ridando slancio all’economia e alla leadership americana nel mondo. Ne abbiamo tutti bisogno.