Nello Studio ovale
New York. Ritrovando per un attimo l’umorismo sepolto sotto la drammatica sconfitta di Hillary Clinton, l’Atlantic ha scritto ieri che Donald Trump ha “fatto visita al suo nuovo investimento immobiliare a Washington”. L’incontro fra il presidente eletto e quello in carica, Barack Obama, segna l’inizio della transizione, la delicata fase di passaggio dei poteri dove si cerca il punto di equilibrio fra la continuità dell’ufficio presidenziale e la diversità degli inquilini che s’avvicendano. Da ieri l’aggettivo che sarà più utilizzato per i prossimi mesi è “smooth”, liscio, ché lo stile con cui viene condotta la transizione è la prima indicazione ufficiale sul nuovo presidente. Ronald Reagan e Jimmy Carter non si parlavano nemmeno, il repubblicano ha fatto togliere anche i pannelli solari fatti installare sul tetto della Casa Bianca quattro anni prima, tanto per chiarire.
Trump è arrivato alla Casa Bianca evitando le telecamere che si affacciavano sulla West Wing e saltando la foto con il presidente regnante e la first lady sulla porta, un rituale facoltativo che non è parte del protocollo, e non ha voluto cronisti al seguito. La scelta, significativa, è stata di scattare invece la foto nello Studio ovale. E’ lì che Trump ha ricevuto il battesimo del potere. Il “transition team” del presidente eletto lavora a fari spenti da vari mesi per preparare il passaggio di consegne. Il giorno dopo le elezioni è comparso il sito ufficiale del presidente eletto, con molte informazioni sui successi che costellano la carriera di Trump, diversi refusi e anche un “help wanted” per assumere i quattromila funzionari che sono la spina dorsale dello spoils system presidenziale. In un ufficio a un paio di isolati dalla Casa Bianca, un team di consiglieri trumpiani lavora per disegnare le linee guida per la gestione della transizione. Prima di distribuire nomine e mettere le mani nella policy occorre stabilire alcuni criteri fondamentali: “Ci sarà uno sforzo notevole per fare importanti riforme etiche”, ha detto Newt Gingrich, uno degli alleati di ferro di Trump che dovrebbe essere gratificato con un posto di primo piano nel gabinetto.
Le regole interne proposte dal team del presidente eletto prevedono di impedire i conflitti di interessi, innanzitutto con due misure. Chi lavora alla riorganizzazione di un dipartimento federale non potrà poi fare attività di lobbying presso quel dipartimento, mentre i consulenti che in perfetto stile washingtoniano hanno mischiato la carriera nel settore pubblico e in quello privato dovrebbero essere esclusi dalla selezione per qualunque posizione governativa. L’accento è sulla riforma dei malcostumi di Washington, perché il presidente dell’anti establishment è stato votato da un’ampia coalizione di cittadini tenuta insieme soprattutto dal disprezzo per i vizi e le colpevoli inefficienze della capitale. Anche Obama aveva promesso, invano, l’“Amministrazione più trasparente della storia”, ma per l’outsider Trump distaccarsi dalle cattive abitudini di Washington è una questione esistenziale. All’interno dell’uffico trumpiano c’è anche una sottosezione che si occupa della proposta del muro al confine con il Messico: Trump ha promesso di annunciarlo il primo giorno della presidenza. Soltanto in seconda battuta ci si occuperà di nomine e cariche, che pure sono da tempo oggetto di speculazione, con Chris Christie e Rudy Giuliani che occhieggiano al ruolo di procuratore generale, Gingrich che sogna la segreteria di stato e Reince Priebus, capo del Partito repubblicano, che potrebbe essere premiato per la fedeltà con la nomina a chief of staff. Nel frattempo ci si occupa della lunga marcia che porta al palazzo, che deve essere necessariamente accompagnata dagli inni dell’antipolitica.
L'editoriale del direttore