Risveglio d'Europa
New York, dalla nostra inviata. Angela Merkel ha iniziato presto a gestire lo choc europeo di fronte alla vittoria di Donald Trump. Ha convocato per domenica una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri e ha fatto una dichiarazione semplice e importante: il voto americano non riguarda soltanto gli americani, “chi guida quel grande paese, con la sua enorme forza economica, il suo potenziale militare e la sua influenza culturale, ha una responsabilità che si ripercuote sul mondo intero”. Merkel ha ribadito che l’alleanza tra Germania e Stati Uniti è tra le “fondamenta” della politica estera di Berlino e ha offerto collaborazione a Trump sulla base di alcuni valori: “I valori della democrazia, della libertà, del rispetto della legge e della dignità dell’uomo, indipendentemente dalla provenienza, dal colore della pelle, dalla religione, dal sesso, dall’orientamento sessuale o dalle sue visioni politiche”. Merkel ha fatto insomma un ripassino veloce ma evidentemente necessario delle basi dell’ordine mondiale liberale, con l’augurio di una condivisione d’intenti da parte del nuovo presidente americano. Ma mentre la cancelliera tedesca si confermava leader dell’Europa – con una missione di “choc control” – e altri leader si congratulavano in modo cauto e incredulo (l’Europa è il regno dello stupore), la coalizione internazionale di Trump si delineava con perfezione, tracciando un ponte tra Washington e Mosca costituito da movimenti politici antisistema.
Hillary Clinton stava ancora pensando a cosa dire a Trump per congratularsi della sua vittoria e non morire della propria sconfitta, quando una delle menti del Front national francese, Florian Philippot, ha tuittato: “Il loro mondo affonda. Il nostro si costruisce. #spazioaipopoli”, con una foto sognante di Marine Le Pen, leader del Fn. Allo stesso modo, in Inghilterra, Nigel Farage, ex leader del Partito indipendentista britannico Ukip, seguiva in diretta con un suo piccolo team la notte elettorale americana, tuittava immagini con le dita di “vittoria” alzate, prenotava il primo volo per New York, e ripeteva che il trionfo di Trump è molto più grande di quello della Brexit, che le due rivoluzioni cammineranno insieme in questa “fine dell’èra del big business e delle big politics che controllano le nostre vite”.
L’annuncio di Trump di qualche giorno fa sull’8 novembre come una “Brexit plus plus plus” suona ora profetico, e quando Theresa May, premier inglese, si è congratulata con il nuovo presidente americano, augurandosi collaborazione, già si tracciavano parallelismi tra le prime parole della May da premier post Brexit e quelle di Trump: una promessa di rassicurazione ai “dimenticati”, la garanzia che la loro voce sarà ascoltata. Sull’impatto che Trump avrà sulla Brexit i commentatori hanno idee differenti, ma il fronte delle colombe (che vuole il Regno Unito nel mercato unico) si sente molto più debole. Se all’America non interessa più la tenuta dell’Europa – la coalizione trumpiana si muove contro Bruxelles e il costrutto europeo – e se invece si aprono strade commerciali concrete, sarà più agevole il tentativo di spezzare il legame inglese stretto con l’Europa.
Se le istituzioni europee si muovono con circospezione, alla Nato la preoccupazione è alta. Il segretario generale, Jens Stoltenberg, si è congratulato con Trump, e ha dichiarato che la leadership americana “è più importante che mai”, che la pace degli ultimi settant’anni si fonda sull’Alleanza atlantica e che “una Nato forte è un bene per gli Stati Uniti e un bene per l’Europa”. Suona come un: lascia viva la Nato, conviene anche a te. Come si sa, Trump ha spesso detto che l’Alleanza è “obsoleta” e “inutile” e che va ripensata: in questo il nuovo presidente non è lontano dall’approccio dell’attuale inquilino della Casa Bianca, l’anatra zoppissima Barack Obama, che ha accusato i “freeriders” europei di approfittare della generosità americana. I toni di Trump sono stati naturalmente più duri, ma che la “beneficenza” americana sia finita lo temono un po’ tutti. Ma non si tratta solamente di una questione di spese e di conti: la Nato considera la minaccia russa la più grave e imminente per l’Alleanza. Prepara forze d’intervento rapido sul confine est dell’Europa e promuove una politica di contrasto al progressivo espansionismo russo (tra Crimea e metà Ucraina).
Lo scontro politico con Trump, sulla questione russa, si prospetta brutale: Vladimir Putin è considerato il vincitore assieme a Trump del voto americano, la cosiddetta belligeranza della Nato finirà nel regolamento di conti tra l’America e l’Alleanza. Così, quando l’ungherese Viktor Orbán si congratula per il “restauro della democrazia” in America, e lo fa anche Yanis Varoufakis, non fa che rafforzare quel corridoio che ora collega la Casa Bianca e il Cremlino e che secondo molti ha una missione antieuropea chiarissima: per quel che conta, lo sostengono anche molti repubblicani – vedi John McCain – che ora si ritrovano con Trump presidente. La sinistra europea intanto celebra i funerali del clintonismo, chi con più ardore chi con il ditino sandersiano alzato: che questa vittoria trumpiana sia anche la tomba dell’obamismo ancora è un lutto da elaborare.